10 anni di scorribande, 10 anni di continui ribaltamenti in corsa quindi perchè con
Texas Junk i
Deadend Cowboys avrebbero dovuto voltar pagina? Ci tengono a recuperare il marchio di ‘autori’ a pieno titolo restando sempre irriverenti, va bene non c’è più la costante frenesia tipica da venerdì sera nei bar-room texani perchè abbracciano il country più ‘alternative’, la ballata tutta slide, piano e malinconia, ma seppur
Texas Junk sembri un disco pensato per far soldi, nonostante le apparenze va a configurarsi come il loro disco più riuscito.
Il motto "
you bring the whiskey, we'll bring the noise!" non vi preoccupate è ancora ben visibile sulle loro canzoni è soltanto che sin dall’avvio della splendida
Last Man At the Party lo spazio, il tempo, viene avvolto dall’inerzia, quel fascino struggente calato nella luce attonita di una scarna strumentazione (slide e mandolino), fraseggi elettro-acustici che giocano con esistenze, sogni, illusioni e desideri a volte più dissacratori come in
Burn This Town Down tutta violini e melodia, ma è la ballata la forza in più di
Texas Junk: da
Start to Start, cantata con lo stesso piglio addolorato alla Shooter Jennings, una perla che non lascia indifferenti, dove il piano affianca il violino e la slide che rifiutano programmaticamente la piattezza del facile sentimentalismo, solo pura essenza country ma senza virtuosismi e poi con una certa disinvoltura ci affiancano la sferzata rootsy-country di
Better Off tanto per chiarire che sono sempre loro, gli spavaldi
Deadend Cowboys.
Malinconia agreste che funziona anche per
She Never Said Goodbye che ruota senza posarsi più di tanto, sul dolore e sulla sofferenza dell’amore, più ovattata del solito, ma che riescono a mostrare e a condirla con una buona dose di riff efficaci mentre il paesaggio messicano della dolcissima
Salsipuedes si divide con l’altra faccia dello scenario di confine, ovvero quello festaiolo rappresentato dalle trombe mexican dello spensierato rockaccio border di
You Ain’t Gotta Lie che si tira dietro il sarcastico che è protagonista anche della piacevole
Country Music Kills, alcolica, quasi a voler significare che il countryside texano è come una combriccola di deviati, se lasciati al giudizio dei puristi del country. Il mito del west non poteva mancare in
Texas Junk, ma appare svuotato di senso nella morbida
My Last Nerve, e non c’è nessuna frontiera da esplorare, nessun territorio da conquistare e così non resta che starsene al saloon e cantersela con la limpida bellezza dell’acustica
Ditty. Difficile liquidare
Texas Junk in due parole… no! Bel disco!