WILLY DEVILLE (Live in Berlin)
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  Recensione del  26/02/2004
    

Un grande, grandissimo soulman. Willy DeVille si conferma artista di razza e sceglie la strada più difficile per realizzare il secondo live ufficiale della sua carriera, quella del disco acustico suonato in trio. Una dimensione, quella acustica, diventata di moda una decina di anni fa quando gli unplugged di MTV facevano tendenza ma che DeVille adotta oggi, distante da qualsiasi trendy, per ribadire il suo profondo rapporto con la musica.
Willy DeVille ha probabilmente avuto nella sua carriera difficili convivenze con il music business e con l'ufficialità del rock, visto che, subito, per le sue anacronistiche scelte artistiche e la sua condotta non certo irreprensibile (inutile tacere i suoi vizi e le sue insofferenze) è stato emarginato dagli Stati Uniti e boicottato dalle case discografiche ma con la musica il nostro ha mantenuto inalterato negli anni un rapporto creativo e d'amore, trascendendo le vili vicende d'affari ed elevandosi a stella di prima grandezza, avulso dai tempi, dalle mode e dai meccanismi dell'industria.
È il più grande soulman dei nostri giorni e questo Live In Berlin lo dimostra in pieno. Come d'altra parte il suo itinerario artistico, sempre dall'altra parte della strada. All'inizio, in piena baraonda punk, Willy bazzicava le pericolose vie della Losiada ma invece di predicare il no future rispolverava i nomi di Doc Pomus, Dion, Ben E.King, Phil Spector e gli arrangiamenti del Wall Of Sound ovvero il soul di New York City, roba da far rizzare i capelli ai punks del Cbgb.
Non poteva che finire esiliato in quel di Parigi a rovistare tra i vecchi dischi di rock n'roll cari ai francesi, in primis Gene Vincent invaghendosi dei bistrot, dell'Olympia e della musa Edith Piaf. Ritornato in patria e abbandonata la Grande Mela si trasferisce a New Orleans dove inizia un flirt che dura tutt'ora fatto di soul, R&B, cajun music, bourbon invecchiati, vampiri e voodoo, entrando in simbiosi artistica con le architetture della città e con i suoi santi Eddie Bo, Allen Toussaint, Dr. John, Champion Jack Dupree.
Da li parte per una vacanza in Messico dove inventa una Hey Joe mariachi e si porta un pò di sfumature centroamericane per colorare uno dei dischi, Backstreets Of Desire, più conosciuti della sua carriera. Non contento, si sposta nel vicino Mississippi dove va a vivere attorniato dai cavalli e dal blues. Si mette a suonare, acustico ed elettrico, le canzoni di John Lee Hooker ed Elmore James e realizza, nello spirito down home del Delta il bellissimo Horse of A Different Color.
Porta in giro per l'Europa un set con un armamentario ridotto di chitarre acustiche, rullante, basso e cori femminili, rivelando un Deville più intimista e loup garou, rapito dall'oscurità pericolosa e peccaminosa del French Quarter e delle paludi. Poi sottrae ancora e si presenta in questo Live In Berlin con un trio di basso (David Keyes), piano (Seth Farber) e chitarra acustica per un concerto che è un po' la quintessenza della sua grandeur artistica, un concentrato di soul, blues, ballads, folk-blues e rock n'roll da commuovere anche un boia del Texas.
Non è facile sostenere la prova del disco acustico, specie dal vivo, si rischia di tediare, di ripetersi, di perdersi in una purezza fine a sé stessa. Solo i più grandi ci riescono e Willy è tra questi, due ore di musica che attraversano senza soluzione di continuità tutta la sua ispirazione.
Dalla musica di New Orleans al rock n'roll di Elvis Presley e Fats Domino, dalle ballate pregne di umori sudisti alle riminiscenze newyorchesi dell'era Magenta, dal blues di Robert Johnson alle fumose atmosfere barrellhouse di piano e contrabbasso fino alla trasposizione di due capolavori della ballata rock quali Carmelita di Warren Zevon (una canzone in cui DeVille si immerge con tutta la commozione possibile, interpretando come meglio non potrebbe la disperazione del junkie) e Billy The Kid di Bob Dylan, brano a cui il nostro infonde eroismo e romanticismo come meglio non si potrebbe.
Ci vuole una grande voce per compiere un'operazione del genere, una voce che viene dal profondo e scava nell'anima, che arriva al cuore, che in certi momenti tradisce un senso di sofferenza e dolore come in una torch song di Billie Holiday, una voce che riempie la scena e la musica come un orchestra. Bravissimo anche il pianista Seth Farber e disciplinato il bassista David Keyes ma senza la voce di Willy e il suo savoir faire un disco così non sarebbe possibile.
Diviso in due Cd Live In Berlin concede all'artista di misurarsi prima con i brani più intimisti e sofferti, più tradizionalmente legati a un patrimonio antico di blues e folk/blues, un po' come Johansen con gli Harry Smiths, poi di sciorinare un po' di rock n'roll e infilare, successivamente, una acida versione di Rambling On My Mind e un trittico da pelle d'oca quale Steady Drivin' Man, Goin' Over The Hill e Bamboo Road. Per finire in lacrime con le accorate Carmelita e The Ballad Of Billy The Kid. Ventotto brani in tutto.
Si parte con il caldo suono della Big Easy, quando pianisti come Champion Jack Dupree e James Booker coglievano l'umore della notte nelle taverne del quartiere francese con quello stile barrelhouse che profuma di tabacco, donne e alcool sotto banco. L'intro è affidata al piano di St.Peter's Street, poi sbuca il vocione di Willy e una dopo l'altra si srotolano Betty&Dupree, It's Too Late She's Gone di Chuck Willis, Spanish Harlem, il folk/blues di Trouble In Mind arrangiata col piano contrapposto a una slide che taglia come una lama. Willy da fondo alla gamma delle sue sfumature ed estensioni vocali, facendo il crooner, l'intrattenitore da lounge bar, il soulman, il grande interprete jazz. Storybook Love come Nightfalls sono due ripescaggi di Miracle, ballate intense e doloranti che esaltano la grandezza di quell'album.
Qui non ci sono gli arrangiamenti e la chitarra di Mark Knopfler e ridotte all'osso trasmettono ancor più drammaticità e sofferenza, come se un senso di caduta attanagliasse l'artista. Di nuovo lo charme di New Orleans per Big Blue Diamond (era in Victory Mixture), dove Willy sforna una malizia vocale d'artista di classe, dallo stesso album è estratto Junker's Blues di Champion Jack Dupree altro spaccato di una città viziosa, che sa di whiskey, di letti sfatti, di sordidi locali. Naturalmente Willy non si risparmia il verso di una sniffata di cocaina.
Romanticismo da brivido in Shake Sugaree, un folk/blues che conoscevo da The Many Sides Of Fred Neil e che, con chitarra acustica e piano, DeVille tramuta in una rauca ballata che fa riferimento a quelle meraviglie che in Return To Magenta avevano titoli come I Broke That Promise e Just Your Friends.
Poi è la volta di canzoni dal cuore tenero, la triste Let It Be Me, una Broken Heart che sembra frutto dell'accoppiata Drifters/ Dion e You Better Move On di Arthur Alexander, archetipo della southern ballad responsabile di aver contagiato perfino quei duri degli Stones. Anche Heaven Stood Still si sviluppa come una ballata ma arriva da lontano, dall'album Le Chat Bleu e da un contesto parigino.
Ha in sé le caratteristiche della canzone europea, è drammatica, plumbea, quasi funerea, toccata da una viola e dall'infatuazione per Edith Piaf. In Since I Met My Baby e I'm Blue So Blue si scorge l'ombra di DrJohn mentre Keep A Knocking/Sea Cruise, Hound Dog, Shake Rattle&Roll vengono conditi all'agro anche se sanno di Elvis. Poi inizia il gran finale. Rambling On My Mind è addolcita dal piano ma suona come un latrato da cane randagio. Chitarra e armonica graffiano come meglio Robert Johnson non poteva immaginare.
One Night Of Sin è un altro rock n'roll di New Orleans del repertorio di Presley, e la sequenza Steady Drivin' Man, Goin' Òver The Hill e Bamboo Road è l'highlights dello show. La prima è tratta da Return To Magenta ed è uno sporco e aspro rock urbano che non avrebbe sfigurato in Exile On Main Street degli Stones. La versione è da antologia, un inizio con chitarra e armonica e poi la voce vampiresca di Willy che intona un bluesaccio da far impallidire l'ultimo Tom Waits e quelli della Fat Possum.
La seconda è una specie di chain song che qui si bea di un po' di gospel per via del coro femminile. Ma il suono è torbido e Willy sferraglia un blues selvaggio che potrebbe stare su Mule Variations.. Bamboo Road allenta la tensione e porta tutti in strada a ballare attorno ad un ritmo vagamente cubano e a una slide che miagola lamentosa. Who's Gonna Shoe Your Pretty Little Toe, altra cover, regala una coreografia vagamente western prima che i cuori degli ascoltatori siano definitivamente trafitti dalle crepuscolari versioni di Carmelita e Billy The Kid.
Nella prima parte del concerto non avrebbe sfigurato qualche arrangiamento o qualche accorgimento strumentale sull'esempio del concerto di Bergamo recensito su queste pagine ma Willy DeVille ha deciso di ridurre tutto ai minimi termini optando per uno spartanissimo trio. Due ore di musica, una voce incredibile, inquietante e commovente, un piano che strimpella un blues ai confini del tempo, il senso di sofferenza e la profondità di un uomo che canta il blues come fosse una Billie Holiday al maschile. Un disco grandioso.