BLINDSIDE BLUES BAND (Smokehouse Sessions)
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  Recensione del  01/09/2009


    

Mike Onesko e la Blindside Blues Band, uno splendido e dilatatissimo tributo di 65 minuti ad uno spiritato e fumoso heavy-blues che esplode negli ultimi venti minuti in una magnifica jam e gli spazi si dilatano, enormi e sconfinati, tra cover e brani originali che raccontano la storia di un’irrequietudine esistenziale, nomade, in un mondo che non permette alla libertà di compiersi. Le Smokehouse Sessions sono un pugno in faccia all'America.
Arrabbiato, nevrotico, e anche doloroso quando si cala nel torbido sound del Delta Mississippi degli splendidi 8 minuti scarsi di Little red rooster e i tempi della grande depressione dove la povertà era il biglietto da visita che la Storia presentava ai cittadini degli Stati Uniti torna a galla, soprattutto a quelli più poveri o di colore, dove i musicisti di strada si esibivano qua e là per un po’ di elemosina o guadagnando solo il calore di una stufa nelle rigide giornate d’inverno.
La voce di Mike Onesko inizia a gracchiare, urlare mentre si diverte a scartavetrare la chitarra insieme a Bill Cressock (completa la band la batteria ferrea di Emery Ceo e il basso di Kier Staehili) in jam -che come la maggior parte delle altre incisioni- presentano un suono in presa diretta, live in studio, proprio per catturare l’essenza di un suono granitico e sporco che saprà come schiodarvi dal torpore post ferie perché non sempre si riescono ad ascoltare band così dannatamente capaci di trasportarvi in giro per 40 anni di blues con tanto amore e devozione (e riallacciando il discorso storico, le Smokehouse Sessions potrebbero divenire 2, 3, 4 e così via).
L’amore per la chitarra di Mike Onesko ha radici nella sua giovinezza tra Cleveland e San Francisco poi l’amicizia del produttore Mike Francis lo ha spinto a cavalcare un’impetuoso blues che ha avuto alti - il 1996 con To The Station l’anno della svolta- e parecchi bassi che li hanno portati a separarsi e a litigare tra di loro ma alla fine il blues ha vinto e anche la sua band, un nome che resta a galla da un ventennio con un suono che abbraccia un heavy-rock-blues con arrangiamenti, jam e spruzzate R&B che non dispiaceranno ai nostalgici innamorati dei Deep Purple o dei Led Zeppelin: dalla classicità di Rock me baby, a Dirty double dealer che vede alla chitarra la special guest John Leonord ad Sweet little angel non sempre tutte con la stessa aderenza, quest’ultima volutamente distante e distaccata.
Ma con Rambling on my mind rivisitano i luoghi del blues per cercare di nuovo l’aria di quel tempo, come delle lastre fotografiche su cui si sono depositati strati di polvere e che una volta pulite, danno la possibilità di rivedere i colori che appartenevano alle cose di allora, così risplendono i dieci minuti della magnetica Hoochie coochie man, Same old situation agli otto minuti deflagranti di Who knows jam (altra strumentale in chiusura, altra perla ma stavolta Albatros è tutta dolcezza e malinconia) alla meravigliosa cover di Crossroads 69 rivista in doppia versione: 4 minuti immersi nella lap steel, nel clima di una festa in sottofondo -chi tossisce, chi brinda con la birra, chi sbatte le mani al tempo- ai restanti 4 minuti rivisti alla loro maniera, blues e jam.
Se non ci hanno dato il loro capolavoro, Mike Onesko e la Blindside Blues Band non ha nemmeno cercato di barare. Gran bel disco!