REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND (The Whole Fam Damnily)
Discografia border=Pelle

             

  Recensione del  01/07/2009
    

I messaggi di fede del reverendo vi entreranno in testa dopo un paio di secondi comunque lo vogliate, ad esempio quelli incazzati di Can’t Pay the Bill sulle assicuzioni che speculano sulla salute della gente rappresenta solo una sfaccettatura di The Whole Fam Damnily. Con un rock-folk-bkuegrass sporco e nervoso racconta la vita ai confini dell’amor proprio, la voce scuote la solitudine dei mendicanti, il buffo diviene un pretesto per abbassare la scure sulla polizia e sulle istituzioni non tralasciando di certo la corsa al potere, all’arricchimento a scapito della gente normale che vive di sentimenti semplici, ma si sa, il cuore di quei loschi arrampicatori ha preso la forma e la scorza di una macchina per far soldi.
The Reverend Peyton’s Big Damn Band cantano e suonano in un crescendo di emozioni che hanno tutto il trasporto della fede, quell’anima nera che un’indiavolata sezione ritmica porta a galla la pura Americana bagnata dalla saggezza delle liriche, "Sometimes I lose, sometimes I get lucky” ripete il coro di Worn Out Shoe.
Una sorpresa questo The Whole Fam Damnily, canzoni oneste da un trio acustico che vede il reverendo in prima linea con chitarra e armonica, sua moglie Breezy e il fratello Jamie alla batteria. La voce di Peyton la conoscono bene gli Americani in cui batte il cuore del delta del Mississippi ma le sue liriche stavolta, rispetto al passato, diventano l’altro punto di forza del cd, un vero calcio negli stinchi fin dal gospel rootsy blues iniziale di Can’t Pay a Bill, un lamento che ha i versi di una preghiera al signore, di renderlo forte perché ammalarsi vorrebbe dire la fine…
Quel blues che ha anche il calore del focolare domestico di Mama’s Fried Potatoes mentre al country chiede di raccontare la stanchezza di un continuo spostarsi da un luogo all’altro, con la dolcezza spiritata di Worn Out Shoe alla nostalgia fanciullesca di Them Old Days Are Gone, alla ballata meravigliosa di John Hughes (The Water Tower's Heart Is Sore) dove la malinconia è il terreno scelto dal Vietnam che è sempre dietro il muro fragile dei ricordi. Il blues ritorna alla carica in The Creeks are all Bad dove la parobala dei pesci adesso rappresenterebbe presagio di morte sicura "...there's PCBs in the catfish / and mercury in the bass" ma i messaggi espliciti sono la forza del reverendo, il pissing fuori dal WalMart Killed Country Store è vangelo per tutti coloro devoti alla fede quando canta "The factory closed, they couldn't compete / with slave labor sweatshops across the sea / put your little town on the map / with four football fields of Chinese crap", pura bellezza…
Il suono si irrobustisce col whiskey di Dts or the Devil e si urla al vento che porta con se quel gioiello di umorismo di Your Cousin’s on Cops, dannatamente piacevole. Anche l’amore e le sue contorte relazioni vengono passate al setaccio in What Mine Is Yours, ballata cantata con il giusto trasporto, quasi un bisbiglio (anche se con quella voce!) e nel sentimento vero della deliziosa I'd Love You Baby (resta solo la conclusiva e ballerina Persimmon Song fuori tema, ma solo per quello). Un signor disco che non usa metafore e va dritto al sodo e come scrive nelle note del disco: "All the songs I write are 100 percent true, I don't make stuff up and I never have," parole e musica del reverendo Peyton a cui bisogna credere.