STEVE FORBERT (The Place and the Time)
Discografia border=Pelle

     

  Recensione del  01/06/2009
    

Il ritorno di Steve Forbert con The Place and The Time non ha lasciato i fans molto contenti, un malcontento che sotto certi aspetti è condivisibile perché non ci si trova difronte al suo miglior lavoro però il tocco melodico, la voce e la strumentazione elettro-acustica catturano in qualche modo ancora la magia di un certo periodo del sound anni ’70 (dall’altra ci infila qualche arrangiamento un pochino stucchevole!) La conversazione incominciata con il pubblico una trentina di anni fa continua con le storie di The Place and the Time a focalizzarsi sulle diverse faccie della personalità umana, un po’ come Alive on Arrival celebrava la giovinezza e la libertà con lo sguardo rivolto alle stagioni adulte, alla responsabilità che entra in gioco in The American in Me, dalla costola del precedente Strange Names and New Sensations ecco i problemi della mezza età tra gioie e dolori che tornano ad essere protagonisti.
Si porta in studio la sua band e qualche celebre partecipazione come il chitarrista Reggie Young, ma al piano e alla dolcezza di Blackbird Tune il compito di aprire The Place and the Time e la malinconia del cello e della strumentazione acustica contraddistinguono un inizio all’altezza del grande Forbert, da Sing It Again, My Friend una ballata splendida con una melodia semplice che arriva dritta al cuore impreziosita da un coro indovinato e da un solo finale di qualità che continua con la fisa festaiola di Stolen Identity.
Write Me A Raincheck non è da meno anche se la scena diventa notturna tinteggiata da riff bluesy magnetici e sembra trovarsi a suo agio anche nella piacevole Labor Day per tornare alla luce a parlare della gioia della vita con un’altra ballata elettrica Hang on Till the Sun Shines, armonica e tocco alla Forbert molto meglio di Simply Must Move On che ha qualche(!!) cedimento pop nel refrain che viene alimentato dall’intro della fin troppo ironica The Beast Ballyhoo (Rock Show) davvero poco indovinato riprendendo a fatica quota con Building Me A Fire, seguendo il percorso di rendenzione di un songwriter di Philadelphia, Devin Greenwood. Altra cover è una discreta Coo Coo Bird, chiudendo con un paio di ballate godibili Hang On Again Til The Sun Shines (NYC) e il folky di Blue Sky. Non è certo un Forbert tirato a lucido ma non urlerei certo al disastro come molti di quelli che si ritengono fan di Steve Forbert