WILLIAM CLARK GREEN (Dangerous Man)
Discografia border=Pelle

     

  Recensione del  05/05/2009
    

Si sente che è cresciuto in una piccola cittadina del Texas, a Flint William Clark Green ha iniziato a scrivere all’età di tredici anni, le sue canzoni sono genuine, oneste e molto personali aggiungerei: la vita tra redenzione e whiskey ha un prezzo da pagare e lo fa con la fierezza di un country stradaiolo e ballate roots tra violini e affondi alla telecaster molto convincenti.
Gavetta a College Station, lezioni di chitarra gratuite nella parrocchia vicino casa (da noi si va per piangere, lì si suona!) fino a quando il percorso alla Texas Tech non era solo il modo di far sport e laurearsi, ma dai venerdì sera trovare la strada più veloce per suonare con amici e riuscire a condividere le idee con altri songwriter e musicisti, Josh Abbott ad esempio che gli ha fatto varcare la soglia del Blue Light in quel di Lubbock.
William Clark Green ha registrato il suo primo disco Dangerous Man ed ha tutte le qualità delle prime e rozze incisioni che rendono il Texas una fucina invidiabile di songwriter dal futuro roseo (molti ahimè sono poi costretti a cedere al mercato delle vendite), otlaws dreams e sgroppate chitarristiche, pensieri in musica come da un rodato storyteller che canta con voce impastata di alcol e con la sigaretta tra le labbra almeno quando si tratta di scendere negli inferi, le ballate principalmente, con il sole della propria terra a segnare il ritmo in corposi roots pimpanti, violino e chitarre, davvero molto spigliati e accattivanti.
La splendida Cumberland Road è luminosa come le strade della provincia texana, slide che tuona, whiskey e rock tosto e chitarristico che danno una bella sferzata e voglia di fare, ma dato che dalla finestra di casa il paesaggio è agreste Dangerous Man pizzica la superficialità del nostro quotidiano e fa entrare il roots sound tra la telecaster e il disco continua a decollare con la meravigliosa Gypsy, i violini, la voce decisa ma dolce da roots-rocker plasmano la melodia che ristagna nel texas sound quello genuino e pieno di calore di una strumentazione elettro-acustica quanto mai avvolgente.
Ma i violini possono essere anche malinconici ed avere lo stesso fascino, Greed è nervosa, incazzata, uno slow-rock che trova nel country il compagno ideale per duettare in un crescendo strumentale coi fiocchi ma siccome i diavoli dalle sue parti sono abituati al sole ecco che si riprende a sorridere con la saltellante Down with the Line, ci infila anche la fisa e New Orleans acquista qualità e spessore, delle piccole perle rootsy che dopotutto sono il perfetto contraltare della vita vissuta al limite e quando si cade Outcast sa come descrivere col suo lento andare il paesaggio freddo e spoglio della solitudine e della perdita.
Ma da cui si può sempre risalire perché se non hai niente da perdere con Nothing to Lose riprendi la strada, dalla California a Austin tra chitarre e banjo il pensiero va verso casa, una Come Home struggente che si carica tutta sulla sua bella voce. Un sorso di whiskey, prende la chitarra che sostuisce alle pistole delle sue storie che ti attaccano al passato e via prima con la trascinante Wishing Well prima di chiudere con la meravigliosa ballata di Can’t Let Go. Un esordio notevole, da tenere d'occhio !!