TOM PETTY AND THE HEARTBREAKERS (The Last DJ)
Discografia border=Pelle

          

  Recensione del  26/02/2004
    

Il titolo non mi piaceva, ma un titolo conta poco o nulla. Poi ho sentito il disco e sono rimasto deluso. Un disco involuto, prodotto in modo anonimo, con qualche canzone brutta (Petty aveva mai scritto canzoni brutte? A mia memoria no). I testi sono spesso vibranti, contro l'industria discografica, le corporation, la società, ma la musica non li segue, talvolta è molle, involuta, arrangiata male. E poi, come nel caso del Boss, Petty usa poco la band, almeno in alcune canzoni.
Non è tutto negativo, un paio di buone canzoni ci sono. E poi non si può smontare di botto uno del valore di Petty, uno che ha sempre difeso il rock a denti stretti, anche se adesso ammette, o almeno scrive, un epitaffio sulla musica rock. La produzione è di George Drakoulias che, in passato, ci aveva abituato ad altri suoni, mentre la band è la solita: Petty, Mike Campbell, Benmont Tench, Scott Thurston, Ron Blair (ha sostituito Howie Epstein) e Steve Ferrone. Echo aveva ben altra caratura dal punto di vista delle composizioni, mentre il suono era diretto come un pugno in faccia, per non parlare di Wildflowers il suo disco migliore degli anni novanta. Ma The Last DJ si perde per strada. The Last DJ, la canzone, si apre con il classico jingle jangle del biondo della Florida. Una ballata di buon valore, suonata bene: semplice, dotata di un ritornello accattivante che richiama parzialmente alcune vecchie melodie di Simon & Garfunkel.
Alla fine c'è una coda di piano, con gente che parla. Money Becomes King, accusa abbastanza dura nei confronti del record biz, è meno bella. Ci sono gli archi, la canzone è un po' triste e poco pettyana. Rammenta certe cose di Roy Orbison ed il motivo di fondo non è male, anche se alla lunga risulta monocorde. Dreamville è meglio: ci sono ancora gli archi, ma è appena un velo, mentre la canzone ha una sua liricità di fondo ed una struttura piacevole. Cresce alla distanza e ci sono parecchi punti di riferimento con il suono dei Beatles. Joe è brutta, veramente brutta, e Petty canta in modo irriconoscibile. Ha un testo volgare e la si dimentica in fretta.
Anche When A Kid Goes Bad non contribuisce a sollevare il disco. Intro anonimo (ma dove sono le entrate di chitarra di Echo? Free Girl Now o Swingin', ad esempio), il ritornello è discreto, ma non basta. Anche l'assolo di chitarra è opaco e solo alla fine Campbell esce allo scoperto. Like a Diamond e una ballata, ancora supportata dagli archi. Ha un riff ben costruito (She Goes On Forever) e la composizione cresce lentamente e risulta, alla fine, ben calibrata. Lost Children ha finalmente un intro rock, ma la voce di Tom è una tonalità sotto il suo solito.
Una canzone che decolla con lentezza e che risulta migliore nella parte strumentale. Bella invece Blue Sunday, ballata acustica molto personale. Inizia in modo semplice poi, mano a mano che procede, acquista in forza e la base melodica si dimostra di prima categoria con un ritornello vincente. You and Me è ancora elettrica ed ha un ritmo veloce. È una classica Pettysong, ma non è di quelle che fanno sobbalzare sulla sedia, una buona canzone di serie B.
The Man Who Loves Women è spiazzante: il nostro costruisce una melodia anni trenta, abbastanza esile, ed anche la partecipazione (alla doppia voce) di Lindsey Buckingham non la migliora di molto. Have a Love Will Travel è la Mary's Place del disco di Tom. Finalmente una canzone degna di nota, una grande canzone, una di quelle per cui il nostro va giustamente famoso. Classica struttura elettrica, chitarre e piano al loro posto, ed una melodia solida che piace al primo ascolto con gli Heartbreakers che fanno gli Heartbreakers.
Can't Stop the Sun chiude il disco e non è affatto male. Dopo un intro un po' dispersivo la composizione prende quota e migliora, arrivando ad un finale strumentale in stile quasi psichedelico. Voci e rumori tipici di una trasmissione radio chiudono l'album. Meno di cinquanta minuti. Un album sottotono, con canzoni discutibili ed altre poco riuscite. Le canzoni hanno una struttura abbastanza ripetitiva: intro acustico, poi la band, oppure il ritornello che apre la canzone. Però l'album manca di coesione e Drakoulias ci mette del suo appiattendo ulteriormente il tutto.