REBEL SON (Unreconstructed)
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  Recensione del  02/08/2006
    

Con la bandiera dei Dixie stretta in pugno arrivano questi ribelli country-sudisti da Raleigh, North Carolina capitanati dal songwriter chitarrista Lee Johnson, a rappresentare quello spirito, ripopolando quelle storie e battaglie soprattutto nei pensieri e nei raccordi spazio-temporali non risparmiando nulla in un viaggio che inizia nel 2004 con Articles old Confederation, proseguito con il bel Choke on Smoke fino a quest’ultimo Unreconstructed.
Il “candore” del popolo sudista mischiato all’honky tonk vale il prezzo del biglietto, perché alla fine si tratta di uno spettacolo vero dove ci si incazza, si offende e la lingua non ha freno e dato che quella guerra correva sulle strade dell’inferno tra puttane e blasfemia (i fuck si sprecano, ma c’è anche qualcosa di molto più colorito…) però alla fine i tempi nostrani vengono presi di mira e restano una serie di intense e originali ritratti storici, elettrici, da rock band perché i Rebel Son lo sono a tutti gli effetti. Di certo non capita tutti i giorni ascoltare la spiritata On the Warpath, dove a bordo di una dodger charger del 1969 iniziano a inveire contro tutto quello che gli passa davanti, Lee ha una voce cupa che si adatta bene a disegnare i loro pensieri ma la felice Chain Gang fa anche intendere che il country e l’honky style servono per far baldoria, la slide è ruspante e di grana grossa e My Name is Satan sembra uscita da una clip tarantiniana, il ritmo è frenetico, Warmick alla batteria pesta senza attimi di pausa e il ritmo entra sotto pelle lungo i quasi sei minuti. Please Stand Up è estramente piacevole, rockaccio country sempre corposo e trascinante anche se il vero gioiello lo confezionano quando il ritmo si placa, l’atmosfera diventa nera e la terra dei Dixie racconta la sua storia di sangue e di sogni.
Una meravigliosa slow-southern ballad intensa e molto suggestiva come Bury Me In Southern Ground che ti avvolge, ti porta dritto dentro quegli scenari e nell’oscurità si ode solo il refrain avvolgente di Dixieland. Non si spostano dalla soglia del country, l’agreste invettiva contro politici e promesse elettorali di From a Mile Away procura piacevoli momenti rilassanti quando al deputato di turno ci si rivolge a maleparole e quel “Togliti quel sorriso del cazzo dal viso!” e digressioni del genere non hanno subito nel corso degli anni cadute di stile, Out My Face ha un ritornello ‘amabile’ se pensiamo sempre alla classe politica, altro country bello ruspante mentre The Belle of the Ball tratteggia l’unico cambio di rotta, con una ballata rootsy chitarra acustica e voce, di spessore.
Con la splendida Southern Wind si suggella Unreconstructed: con i suoi nove minuti si ritorna a far tuonare la slide, ma con una cura della melodia e della scrittura mostrano appieno che sotto la scorza di irriverenti figli di buona donna, batte il cuore nobile dei Rebel Son che ci portano a metà strada proprio sul campo di battaglia, lasciando al narratore i ricordi della storia dove bastano solo le chitarre piene di malinconia a deliearne il pathos. Prima di chiudere regalano un country sentimentale come Something to Remember Me By, sempre alla loro maniera e una strumentale, Dixie e la bandiera sventola ancora nelle mani dei Rebel Son.