MARK SELBY (Dirt)
Discografia border=Pelle

     

  Recensione del  26/02/2004
    

Chi non si era lasciato sfuggire l'ottimo More Storms Comin' di un paio d'anni fa, troverà conferma in questo splendido Dirt, un disco che nella sua semplicità è un inno al rock'n'roll. Niente di particolarmente straordinario: canzoni che funzionano, chitarre urlanti, riff che non finiscono mai per ripetersi senza senso, un background blues e rhythm and blues che non si perde mai di vista, nemmeno nelle slow songs.
Concetti elementari e chiari fin dall'inizio, come succede in tutti i dischi che si rispettano: Reason Enough è un attacco perentorio che sa di John Mellencamp (periodo Whenever We Wanted) e di chitarre sbandierate al vento come se fossero l'unica soluzione ai mali del mondo, con una batteria (Chad Cromwell) che da sola potrebbe essere una tesi di laurea sul rock'n'roll drumming. Ricorda tantissimo anche il lavoro degli Arc Angels, il gruppo di Charlie Sexton e compagnia bella (compresi i Double Trouble dopo Stevie Ray Vaughan) prodotto da Little Steven, ed è un pregio non da poco. Se si aggiunge che il tastierista (all'organo Reese Wynans, più che eccellente) è lo stesso, i conti cominciano a tornare.
La qualità di Dirt però è data anche da una varietà di soluzioni, che pur girando attorno ad una precisa identità stilistica offrono quei colori e quelle sfumature necessarie a distinguere una canzone d'altra. Ci stanno anche l'aria mainstream di Desire (scritta con Kenny Wayne Sheperd) che magari riuscirà a portare Mark Selby in qualche radio e un paio di ballate (Back Door To My Heart e Deep Pockets) dove, tra chitarre acustiche e quattro note di pianoforte sullo sfondo, appare un retrogusto soulful che lascia ben sperare per il futuro. Anche perché Mark Selby, oltre a destreggiarsi con le chitarre (bellissime quelle acustiche in You, fenomenale la slide che serpeggia in Easier To Lie) se la cava egregiamente anche con la voce, testimone Moon Over My Shoulder lullaby notturna con il pianoforte ancora in evidenza.
Poi, su come macina rock'n'roll, non c'è molto da discutere: Willin' To Burn ha un grande groove di basso e chitarre vagamente psichedeliche e Unforgiven è ancora vicina a certe canzoni di John Mellencamp (questa volta periodo Big Daddy), ma è il finale a sorprendere. Goin' Home è un gran bel pezzo, e qui sembra di sentire Charlie Sexton in Under The Wishing Tree, album affascinante e sottovalutatissimo, ma per certi versi anche le produzioni di Daniel Lanois. Così nello stesso modo, a seguire Dirt che conclude senza esitazioni un disco su cui puntare a occhi chiusi (provate a sentire un paio di volte l'attacco): un soffio asciutto di slide guitar, la batteria ancora sopra le righe, le chitarre che affiorano per gradi, un voce che sa raccontare una storia e infine una canzone che, finalmente in un anno in cui si fa fatica a tirarne fuori un paio per disco, esplode. Davvero un gran bel disco.
L'ultimo e unico avvertimento: play it loud, il rock'n'roll non è fatto per tenerlo nascosto. Fatelo scoprire anche ai vostri vicini.