Pat Green continua ad osservare l’uomo e i suoi molteplici atteggiamenti in una società e in un mondo terribilmente complicato, invocando la spiritualità alla Hank Williams e se ne frega di sembrare un po’ distante da quella realtà, lui pensa a far musica e con quel tocco originale più rock che country riesce lo stesso a mantenere (da anni) una propria fisionomia che gli ha permesso di raggiungere un meritato successo, di continuare a incidere per grandi label senza piegarsi troppo al suono commerciale perché le sue canzoni, la strada delle radio station la trovano comunque.
What I’m For si muove su immagini, concetti che forse potrebbero sembrare scontati (‘
spegnere il televisore chiudere internet’ e così via) alla ricerca di qualcosa che dia un senso alla giornata e alla vita senza usare saccarina ma canzoni che non hanno paura di raccontare e mettere sul piatto le cose così come appaiono, senza nessun filtro.
What I’m For ha un suono che si discosta dal mainstream a stelle di Nashville anche se gli gira attorno, è una collezione di brani che hanno i tempi giusti, roccate, dove non si risparmiano certo i riff, qualche morbida concessione appare ma è poca roba rispetto alla timbrica comunque texana che si respira nel suo ascolto globale. Per la prima volta nella sua carriera ha lavorato con Dan Huff alla produzione, ne ha scritto otto delle 10 canzoni ma l’intro mandolino e voce di
Footsteps of Our Father fa intendere che il suo stile non è cambiato: la band, i riff e la melodia sopraggiungono ed è un piacere ritrovare Pat Green ancora in forma, la title-track procede nella stessa direzione anche se la piacevolezza di
Feeling Pretty Good Tonight con quel retro texano ha maggior appiglio e qualità, più roots o più country che sia, una bella canzone alla Pat Green.
Ancora un mandolino ancora una canzone che scorre via, in
Lucky fa sempre la voce grossa e se la prende un po’ con tutto quello che viene a tiro, ma What I’m For convince e ancor più quando la fisa si aggiunge alla strumentazione acustica e lo accompagnano nella solitaria e intensa
In This World, tra le più belle della sua carriera. Dell’accoppiata che segue tutto si può dire tranne che la scossa di
Country Star sia una parodia negativa dell’essere un cantante country sebbene si muova verso Nashville ma solo per sciommiottarne il suo establishment o di
Let Me che è tutto tranne che una scialba pop ballad.
Casomai restassero scorie negative la ruvida piacevolezza di
In it for the Money, la splendida rivisitazione di un suo successo come
Carry On da Three Days, più rock rispetto al passato e la conclusiva slow ballad di
In the middle of the Night ribadiscono che
Pat Green ha ancora idee e musica anche per chi è al difuori dei confini texani.