WILLIAM ELLIOTT WHITMORE (Animals in the Dark)
Discografia border=Pelle

        

  

  Recensione del  09/04/2009


    

Personaggio anomalo questo William Elliott Whitmore, a vederlo con tutti quei tatuaggi che gli disegnano il corpo come uno di quei giubotti che non mancano mai addosso agli affezionati del rock (anche un bel ‘Free’ sulle dita delle mani), potreste arrivare a giudizi affrettati perchè se i suoi testi hanno la stessa rabbia di un rocker che punta l’indice contro il male impersonato dal politico di turno che abusa del suo potere, quando lo ascolterete cantare con quella voce da vecchio bluesman, cancellerete in fretta e furia tutte quella strane immagini.
Si perché qui si bivacca sempre e costantemente ai bordi di un vecchio bancone dove il legno ha lo stesso colore del whiskey che si intravede dalla bottiglia, dopo una lunga giornata trascorsa nella fattoria, tra cavalli e strade che conoscono solo il rumore di quegli zoccoli, che poi sia in Iowa non importa poi molto.
Forse i suoi 5-6 dischi precedenti erano fin troppo rozzi ma comunque con la stessa stoffa che riveste quest’ultimo Animals in the Dark, William Elliott Whitmore ora ha trovato il connubio perfetto tra l’aria di campagna, il romanticismo, la musica roots e i problemi del quotidiano che diventano protagonisti per quella voce che si ritrova, un eccellente baritono, impossibile restarne indifferenti tra canzoni molto tradizionali nell’approccio al country, un bell’uso del banjo adatto ad enfatizzare i contorni rurali dalle tinte bluesy di Animals in the Dark che non poteva che iniziare con una sorpresa.
Mutiny sembra un canto popolare, la strumentazione è ridotta all’osso con batteria e un tamburo che sembra anticipare aria di guerra, eccolo prendere in prestito da un rapper la morale della chiamata e risposta “We don’t need no water / Let the motherfucker burn” tanto per essere chiari sul concetto di canzone protesta, e l’aria di guerra sembra prendere consistenza, ma ecco che la sua voce prende il centro del palcoscenico e l’armonia di Who Stole the Soul scava nella malinconia e imbastisce uno dietro l’altro delle piccole perle elettro-acustiche, qualche volta si contorna di strumenti ad arco altre volte di sola chitarra, o col banjo e poi con quella voce è capace di dare senso alla sua narrativa che a volte sembra andare fuori strada, da puro anarchico, il bluesy passionale di Johnny Law, ma questo non fa che renderlo ancora più simpatico.
Il disco vola spensierato da Old Devils, altra mannaia su quei cinici ciarlatani (politici) a cui si accennava prima, brano di una bellezza cristallina dove la disperazione, quel senso permanente di prigionia e isolamento sale con l’intensità della sua interpretazione, Hell or High Water è più acustica ma dall’ossatura comunque robusta come sembra preludere dall’ascolto iniziale di There’s Hope for You, brano splendido che lascia entrare il resto della band col contagocce, ma regala così al finale un crescendo magico che con lo stridere della chitarra anticipa quel gioiellino elettro-acustico di una Hard Times cantata col cuore e con la rabbia.
Semplicemente meravigliosa, arriva dal passato europeo del Whitmore di prima generazione. La chitarra e banjo di Lifetime Underground arrivano invece direttamente dagli Appalachi del 1920, agreste la fisa e l’aria di fondo, mentre il blues macchiato di soul solca la sinuosa bellezza di Let the Rain Come In per chiudere in tutta solitudine con un pensiero alla vita, quello di A Good Day to Die, alla fine di una bella giornata piena di sole con i boots lasciati a riposare. Nient’altro che bisogno di pace.