6 DAY BENDER (6 Day Bender)
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  Recensione del  01/03/2009


    

Non capita sempre di ripercorrere il periodo d’oro dell'Alternative Country e se i Say Zuzu solcassero ancora i palchi d’America se li porterebbero dietro questi simpatici ragazzuoli di Charlottesville, Virginia.
Puro distillato alternative ma difficile trovare i loro punti di confine, tra una strumentazione agreste, scatti irrequieti nella cultura traditional del country targato anni ’60, il chiaro-scuro delle storie di Johnny Cash ed ecco servito 6 Day Bender, disco omonimo che arriva a rischiarare la vita stagnante di città con virtuosismi da jam band e pungenti fraseggi al banjo dall’andamento bluegrass, ma molto coinvolgenti e sanno tenere i ritmi sempre alti che non durano meno di 4-5 minuti e per ben sedici brani.
Oltre al Mandolino la strumentazione a sei corde tiene corda alle telecaster con la sezione ritmica che gioca il suolo ruolo e le ballate e la freschezza dei brani alternative rock permettono a 6 Day Bender di diffondere la loro riflessione in prima persona sullo stato di sfacelo generale che quotidianamente ci piomba in casa non solo dalla tv, per mezzo di liriche di protesta tenute vive dai loro irresistibili giochi strumentali che partono in quarta con Best I can dove l’urletto e l’intenso preludio al banjo di Luke Nutting ci portano in fretta e furia nell’honky tonk-americana molto campestre e pieno di riff, country story tradizionali come Wartime dove la disamina è sulla guerra in Iraq con la stupidità che i soldati devono vivere in primo piano, ma il clima resta sempre sostenuto e allegro come mostra la morbida Hellbound. Spazio alla telecaster e il suono si irrobustisce, deliziosa le punte bluesy in Jail Blues che ritroviamo decisamente più sudiste nella bella Checking Out.
Ma il terreno calpestato resta quello country doc e la splendida gita malinconica in Philadelphia mostra le qualità di scrittura, dove melodia e violino collimano perfettamente come le chitarre e il banjo di un’altro roots campagnalo invitante come Down the Line con Danny Breen all’armonica che si unisce alla festa (si ripete anche in Burnin’ My Heart dove duetta con la telecaster) e che solca tutto 6 Day Bender.
Prendiamo Kick Out the Fire che parte come una ballata malinconica, poi Luke indurisce la voce ed entra la band trasformandola in uno slow-roots di pura bellezza, ed è la capacità della band di uscire dagli schemi del già sentito con quella freschezza che si portano dietro e che riversano anche nella trascinante Devil Lets You Dance, l’ammaliante Blood on Your Pillow con i suoi cambi di ritmo ma c’è anche la tesa Fifteen Years.
16 canzoni potrebbero sembrare troppe, ma nessun cedimento durante il tragitto e anche nel finale vanno dritti allo scopo e assestano altre quattro canzoni di ottima qualità: giri vorticosi al banjo in Hurts Me Worse con Wobbly ladder e soprattutto The Times a mostrare il lato diretto e senza fronzoli da rock band concludendo con la perla di Going Back Again, ballata piena di amore e country che se è suonato e cantato come quello dei 6 Day Bender non avrà mai nulla da temere dal logorio del tempo.