PHIL LEE (So Long, It’s Been Good to Know You)
Discografia border=Pelle

     

  Recensione del  01/02/2009
    

Mi mancava Phil Lee, You Should Have Known Me Then è consumato e pieno di graffi, lì accanto a The Mighty King of Love del 1999. Da Nashville è tornato dopo una lunga parentesi di sette anni con So Long, It’s Been Good to Know You, terzo disco che non corre a tutta birra come nel passato ma il suo american-roots è sempre con lui anche se più introspettivo, casomai sono le nuove sonorità rhythm&blues e soul che lasciano dei dubbi.
Canzoni profonde, intense, piene d’umanità da una parte, come la splendida 25 Mexicans descrive in apertura, dolcemente, con quell’aria border tratteggiata da fisa e chitarra a mettere in risalto e in contraddizione tra di loro la vita al confine, tra illegalità, immigrazione e il sogno e il desiderio di quelle persone, tra Woody Guthrie e John Prine nei pensieri, Lee canta con passo struggente da quel grande songwriter che rappresenta da tanto tempo.
Insieme alla tragica Sonny George che nel suo lento incedere folkie, descrive alla perfezione l’aria plumbea di un incidente stradale che segna la vita del conducente e delle sue vittime, un viaggio elettro-acustico più che altro nella coscienza a rappresentare il talento di Phil Lee, quindi un uno-due da applausi che è da preferire all’aria rhythm-soul che imperversa in Neon Tombstone, al clima seventy di Let There Be Love Tonight e Just Because dove la sezione fiati se nel primo caso ha qualcosa di magico, andando avanti non luccica come l’armonica o le virate chitarristiche.
I boots che annunciano la traversata roots di una danzerina e raggiante Last Year Pt. 2 (Killing Time) riportano sulla retta via So Long, It’s Been Good to Know You, che prosegue con l’armonica fiera della splendida Miller’s Mill Pond dove il clima non cambia, rurale e pastoso con quel violino che all’improvviso partecipa alla festa.
Cartolina romantica con la dolce Lovers Everywhere tra fisa, armonica e dolci sussurri prima di concedere alla sezione ritmica un po’ di respiro in We Cannot Be Friends Anymore tra scanzonate verità regge il passo prima di affondare nella scialba Taterbug Rag, meglio le stramberie di una incasinata Where Where a Rat's Lips Have Touched ma solo perché rende bene il senso delle donne e della loro doppiezza, resta l’altalenante giro della title-track per trovare solo in chiusura una ballata intensa, I Hope Love Always Knows Your Name. Nel bene e nel male il ritorno di Phil Lee.