Che voce che ha Jim Pomeroy!! Una vera forza della natura, ma c’è molto altro nella
Rowdy James Band e in questo
On the Ropes, pieno di blues ma differente da quello noioso e piatto dei nostri tempi anche perché difficilmente prenderei in considerazione un disco del genere, ma la carta vincente del disco è in quei richiami alle rock band anni ’70 e le storie di quei periodi, dove oltre alle chitarre si giocava molto su delle voci potenti quanto il suono della batteria e a testi forti e crudi.
Da Detroit una fiammante e muscolosa escursione tra rock’n’roll, blue collar, whiskey e un songwriting che lascia da parte l’autocommiserazione e basta leggere tra le righe dei titoli delle 10 canzoni per farsi un’idea di dove ci vogliano portare la Rowdy James Band:
Good as Gone, attacco fiero, una entrata morbida e suggestiva che viene spianata dalla voce aspra e calda di Jim e pian piano veniamo calati in un bluesy-southern, cuore gospel e chitarre fumose come quelle di
Curtain Call che ci spediscono direttamente negli anni luccicanti del periodo a cavallo degli anni settanta, quasi psicadelici con le tastiere protagoniste (forse la parte che denota il lato meno originale del disco) ma l’armonica che apre la meravigliosa ballata elettrica
Dixie Wind cancella immediatamente quell’aria distorta e ci riporta lo splendore di quel periodo, Jim canta con trasporto del Mississippi e la voce si ammorbidisce per non farla stonare con il dolce assolo all’armonica, gran canzone.
Ma il lato maschio e il blues torbido che si fonde al rock a stelle a strisce è dietro l’angolo,
Station è asprigna, tagliente nei suoi riff, bella pressante,
Low Ball viaggia sulle stesse coordinate, armonica che corre spensierata come la Rowdy James Band ma anche quando rallenta in
Mamma Told Me le sorprese sono liete, suono corale che a volte sembra ripertersi all’infinito come i vocalizzi di Jim, ma non credo che dischi del genere possano concedersi virate improvvise.
Certo
Hand of Gold e
Promises hanno qualche leggera pausa nella qualità stessa dei brani, ma poi ascolti
Where To Live Where To Die e ringrazi di cuore il ripetersi di quei seplici accordi: parole dure, forti, senza fronzoli come le chitarre spoglie e fredde, per fortuna che esistono ancora band che tra un sorso di Whiskey ti schiaffano davanti agli occhi la pura e schifosa verità. Brano splendido da far girare ad alto volume con dedica al vicino di casa…
Il finale è giocato in scioltezza, da
Detroit con amore, con la piacevole cadenza di
You Know How I Feel About You Baby per chiudere con la roboante
The Dirge, corrosiva e incalzante.
On the Ropes è necessario, essenziale e i ricordi lasciamoli pure ai nostalgici.