LOUDON WAINWRIGHT III (Recovery)
Discografia border=Pelle

     

  Recensione del  09/09/2008
    

Sarà stata la bella prova di Strange Weirdos, la compagnia di artisti come Solomon Burke, Allen Toussaint, Betty Lavette e Joe Henry come produttore a vigilare il tutto, ma Loudon Wainwright III si è talmente costruita una bella reputazione tra le icone della American Roots da prendere in considerazione la rilettura dei suoi brani incisi tempo fa (risalgono al 1970, quasi 40anni di carriera, lui che era un archeologo dedito alla ricerca di ossa da dinosauro) che appartengono ad un repertorio costruito su tre dischi. La selezione che ci restituisce in Recovery è davvero intrigante e permette di riconsiderare il suo talento, con una strumentazione ricca oltre al sempre amico piano, mandolino e musicisti all’altezza della situazione.
Il tocco di Joe Henry sembrerebbe decisivo almeno a sentire il rock di Muse Blues di Say that you Love Me e la meditazione celebrativa di Saw Your Name in the Paper tra il suono della batteria e una leggera pedal steel. Tredici tracce che la voce di Loudon tra compassione e gioia porta in primo piano, l’iniziale Black uncle remus un folk-roots con un aria fresca che spira anche nella bella School days e nella delicata Saw Your Name In The Paper, quest’ultima una canzone sui primi passi nel mondo dello show-business attraverso una lettura paterna come si potrebbe consigliare ai propri figli :”Maybe you’ll get famous, maybe you’ll get rich/It’s alright, don’t be afraid, lots of us got that itch” ma come ripete nella splendida Motel Blues, quando hai 25 anni e canti “Come up to my motel room save my life” e una cosa, a 61 è tutt’altra cosa.
Nella sua vita e passato indenne a matrimoni, divorzi, parenti, figli da mogli diverse forse riuscendo a canalizzare tutto nella musica con l’album Therapy (nel vero senso della parola?). Comunque la nervosa The drinking song e la pianistica New Paint sono lì per godere appieno di un suono caldo che ti avvolge pian piano, molte ricoprono una decade particolarmente importante, l’isolamento di Motel Blues e soprattutto Needless to Say con quel sapore border e alternative che insieme ad un’indovinata cover di Cash, Man Who Couldn't Cry vanno a chiudere il sipario nel modo migliore. Non potendo incidere una raccolta dei suoi brani migliori (lo ha fatto per una marea di etichette che sarebbe davvero complicato uscirne) godiamoci questo Recovery aspettando le sue prossime nuove canzoni.