Sarà ma
Massimo Bubola è l’unico cantante italiano, l’ultimo grande autore italiano, che ascolto da oramai diversi anni. Quest’ultimo lavoro
Ballate di Terra & d’Acqua, diciottesimo da quel 1976 data di esordio con Nastro Giallo, continua a sorprendere per la bellezza delle liriche, il suo modo di intendere il rock d’autore e poi una serie di ballate tra folk, roots e poesia che rispecchiano una certa coerenza, nel modo di cantarle, interpretarle e di proporle, che ben pochi possono permettersi.
Queste “ballate” si allontanano dalla banalità che si ascolta quotidianamente e non parlo solo della radio e della televisione, ma dalla realtà autentica e non fittizia del quotidiano che ci circonda e che possiamo toccare, parlo ad esempio della trascinante
Cambiano e del suo ritornello: “
Ma io no, amore, io non cambierò / Come il mare durante la bufera / Ma io no, amore, ti difenderò / Dagli sciocchi che cambiano ogni sera" o del piacevole folk-roots di
Una chitarra per due canzoni che richiama la poesia di Blake, Stevenson ed Edgar Allan Poe con quell’armonica che scandisce il passo in un modo sublime.
Dall’iniziale
Sto solo sanguinando dove al suo chiedersi se stia davvero invecchiando, Bubola risponde con la sua musica che non ha dimenticato quel suono fresco dei dischi passati e molto lo si deve anche alla band al suo fianco, sempre perfettamente in sintonia al suo modo di cantare, parlo di Simone Chivilò (chitarre, dobro), Alessandro Formenti (basso), Joe Damiani (batteria e percussioni), Mauro Ottolini (trombone), Erika Ardemagni e Lucia Muller (cori).
Ancora l’armonica apre il roots fiero di
Tu rifugio avrai, quasi fiabesca ma dannatamente invitante che continua nella visionaria
Un Angelo alla mia porta inframmezzata da una parentesi noir con (la)
Dolce Erica. Se penso a cosa mi tocca leggere sul suo conto, mi vien da ridere… Si prosegue con una ipotetica seconda parte del disco che si apre con la leggiadra seduzione di
Tutti quegli anni, un brano quasi autobiografico che risentirei più volte senza mai restarne pienamente appagato, desideroso di riascoltarla ancora e ancora, alla dedica a Garibaldi di una carezzevole
Uruguay dove al suono di una morbida chitarra acustica dal sapore di terre soleggiate lontane, compare l’uso pregevole del trombone che si mischia perfettamente alla voce di Bubola (lo stesso che ritroviamo nella soffice
Uno, due, tre).
A concludere un signor disco si ritorna alle chitarre con
La collina dei ghepardi per chiudere con la
Canzone dell’essenza, in poche parole una storia. Tra i dischi dell'anno da dedicare soprattutto a tutti coloro che odiano la cosiddetta "ripetitività" di Bubola.