WHIPSAWS (60 Watt Avenue)
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  Recensione del  12/04/2008
    

Ten Day Bender ha permesso ai The Whipsaws di diventare la indiscussa, miglior band dell’Alaska. Si potrebbe obiettare sull’effettiva presenza di alternative al freddo di Anchorage, specialmente se in quella terra (tralaltro è lo stato più esteso degli Stati Uniti), quelle strade sono infestate dal country (molto alternative nel disco d’esordio). Il rock invece, sfuriate alla Uncle Tupelo per essere realistici, predominano invece in quest’ultimo lavoro 60 Watt Avenue e che Evan Phillips cattura e infonde tramite la sua voce tra gemiti e rasoiate incendiarie, per canzoni fresche pervase dal cuore dell’america.
Insieme dal 2002, negli ultimi 5 anni hanno girato parecchio suonando nei più svariati bar del circondario del nord america, arrivano al secondo cd sotto la produzione di John Agnello (Son Volt, The Hold Steady) e con la supervisione di Tim Easton (con il quale dividono il palco in giro per gli U.S.A. a supporto del nuovo disco Porcupine). 60 Watt Avenue contiene vibranti bar room songs, di quelle che catturano immediatamente l’attenzione e pastosi intermezzi alternative, ovvero dall’iniziale granitico attacco di 60 Watt, dove Evan Phillips canta “I believe in rock and roll” a Jesse Jane che ha reminiscenze alla Replacement, chitarre e liriche brillanti:”Jessi your love is like the wind. I couldn't keep you from the bottle, couldn't keep you from the sin”.
I quadretti alternative country sono a dir poco deliziosi, ascoltare i violini e il mandolino che accompagnano Coming Home, che rivestono la canzone di una bellezza e di una freschezza che sorprende e non poco perché poi la melodia corale dell’elettro-acustica Stick Around e Lonesome Joe che la seguono a ruota, sono davvero contagiose: semplicemente canzoni d’amore che sembrano scritte al piano mentre si mandano giù bottiglie di whiskey.
Nel mezzo High Tide spezza l’idillio bucolico con un rock secco, sugli alti e bassi della vita con un lavoro all’armonica splendido per un viaggio nelle terre di piccole città di provincia, che continua con War che rappresenta l’anima dei The Whipsaws divisa tra i Tupelo di Anodyne e gli Stones, per una storia di un giovane uomo e le forze armate, un inno di protesta secco e senza pause: “When you turn 18 you better join the war. You can find a good team. You can settle the score of who's killing who. And who's taking lives. For democracy. For a President's pride.” Un brano splendido.
L’aria è cupa e gli abbondanti acuti chitarristici alla Lynyrd Skynyrd della strumentale Sinferno sono perfetti e si collegano ai riff assassini di Bar Scar che proseguono nella cover dei Buffalo Springfield, Mr. Soul per terminare con la strumentale Ode to Shakey (l’acustica Amsterdam sembra spaesata lì nel mezzo). Poi pensando al brano che chiude il disco, l’acustica Seven long Years con il dobro e l’armonica, una perla, allora capisci che i the Whipsaws suonano quello che pensano, ed è tutto lì il loro fascino.