STEVIE TOMBSTONE (7.30 a.m.)
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  Recensione del  31/05/2004
    

Stevie Tombstone è un cantautore nativo della Geòrgia ma trapiantato da tempo ad Austin, Texas, con un passato di band-leader (un trio rock chiamato The Tombstones, appunto) e già due dischi solisti alle spalle: Second hand sin del 1997 ed il live Acoustica, registrato ad Atlanta. Ma è con questo terzo lavoro (dopo un'intensa attività concertistica che lo ha portato ad aprire le serate di gente come Willie Nelson, Gregg Allman e Pat Green) che Stevie si rivela per quello che è: un songwriter coi fiocchi, autore di ballate di spessore, tra country, folk e rock, con gente come Dylan e Steve Earle nel sangue, oltre a un approccio tipicamente texano verso la musica.
Canzoni vere, coinvolgenti, che narrano di storie comuni e semplici, ma con grande feeling e creatività; un disco senza sbavature o cadute di tono, che non ha pretese di rivoluzionare alcunché, ma che ci fa conoscere un autore e performer di vaglia, da tenere sicuramente d'occhio per il futuro. L'accompagnamento non è mai ridondante, ma tutti gli strumenti sono dosati con precisione; suonano con Stevie due diverse band, The Arkansas Stranglers ed i Texas Tombstones (ovvero il combo che lo affianca di solito dal vivo), oltre ad interventi di Ken Coomer (Wilco) e Jeff Johnson (Jason & The Scorchers). Can't go back to yesterday apre nella maniera giusta, con la ballata agrodolce, tra country e folk, ritmo cadenzato ed un'affascinante e languida steel a condurre il brano.
La folkeggiante Something that I never thought l'd be, dal ritmo sgangherato, ha Dylan nei cromosomi, mentre la toccante The lesson, acustica, ha un feeling notevole, degno di un texano d.o.c. Molto bella Maybe, ritmata e vivace, tra Earle e Billy Joe Shaver, con uno splendido pianoforte liquido dietro la voce espressiva del leader. Un bell'inizio: nulla di nuovo, ma solo pura, vera e sana American music. L'intimista For the last time è molto particolare, come se i R.E.M. avessero passato un anno intero in Texas; Big bad world, elettrica e veloce, rimanda a uno dei primi Dylan, quello che faceva inorridire i puristi del folk tingendo di rock le sue ballate.
La splendida Kevlar heart è il capolavoro del disco: ballata di stampo tradizionale dal pathos straordinario, con solo una chitarra acustica, un violino evocativo ed un gentile controcanto femminile, un brano che colpisce dritto al cuore. Sembra presa pari pari dall'ultimo album di Mellencamp Trouble no more. Il disco si avvia al termine, ma ha ancora diverse frecce al suo arco, come la deliziosa Nuthin sweet about 16, ballad dal sapore di confine, che tanto piacerebbe ad uno come Joe Ely, o la ruvida e bluesata White line of your mind, che sa più di Mississippi fangoso che di Texas, la tenue The long way down, la scattante Murder City breakdown (altro gran bel brano, tra folk e blue-grass, intenso e graffiante) e l'acustica 7.30 a.m. chiudono l'album in deciso crescendo. Stevie Tombstone è un talento (uno che scrive brano come Kevlar heart non è uno qualunque): speriamo solo che inizi ad incidere con più regolarità. Noi lo appoggeremo sempre.