JUBAL LEE YOUNG (Jubal Lee Young)
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  Recensione del  17/12/2007
    

Un altro figlio d'arte si affaccia alle cronache dell'Americana sound: un tempo lo avrebbero forse definito outlaw country o semplicemente country rock, e visto che Jubal Lee Young è niente meno che l'erede di Steve Young, un autentico loser ma soprattutto un grande protagonista della stagione "Anti-Nashville" degli anni '70, il termine calza proprio a pennello. Il suo omonimo secondo lavoro indipendente riecheggia sicuramente gli insegnamenti del padre - un signore che oltre ad avere inciso piccoli capolavori del genere, tra cui Seven Bridges Road e Renegade Picker, ha scritto anche Lonesome O'Ry and Mean per Waylong Jennings - adattandoli ad uno stile leggermente più elettrico, qualcosa a metà strada fra un giovane e ribelle Steve Earle, quello di Guitar Town per intenderci, ed un più classico troubadour texano. Di fatto Jubal Lee Young è un discreto punto di partenza, dopo che la carriera del ragazzo si era impantanata all'indomani del debutto Not Another Beautiful Day.
La biografia accenna infatti ad "aspetti oscuri della vita" che Jubal avrebbe sperimentato in tempi recenti, qualcosa che deve essere finito per forza dentro le sue canzoni. Così mi spiego la rabbia e l'intensità della sua voce, che a volte riesce a mascherare una parte musicale non particolarmente originale. È evidente che ci troviamo di fronte un songwriter cresciuto alla scuola del country alternativo degli anni '70 e il quale non può fare a meno di rievocarla nel clima ruspante di Greed Is the Creed, nelle sudiste The Window Song e Deep South Blues (unica cover, scritta dalla madre Terrye Newkirk), con la tromba dell'ospite Brent Moyer, nella ballad acustica Just Passing Through Your World per violino e mandolino, nello sciolto country rock di Greedy Old Men with Fountain Pens e in quello dalle movenze più western di More Than Anything. Complessivamente il sound di queste canzoni è interegerrimo (un momento su tutti, As I Lay Dying, ballata da fuoriclasse), fedele alla tradizione da cui attinge, grazie anche alla cura dei particolari di Thomm Jutz (titolare delle chitarre e della stessa produzione), Dave Roe (basso) e Pat McInerny (batteria), backing band a cui si aggiungono i camei non secondari dell'ottimo Fats Kaplin (fiddle e padal steel).
Jubal Lee Young fa quadrare il cerchio con la spontaneità e la passione del suo canto, quello che rende probabilmente accettabili anche gli episodi più scontati del disco: dall'iniziale I Don't Know What I Want all'heartland rock di Streets of Caen, con quel giro armonico di chitarra che avremo sentito mille volte. Se avrà l'intelligenza di non perdersi un'altra volta e di inseguire soltanto la sua voglia di scrivere canzoni, credo che Jubal Lee Young sarà un nome su cui puntare tra i i giovani "tradizionalisti" dei prossimi anni.