Sono diversi anni che
Dan Israel ci prova: nove dischi nel suo carnet non sono infatti un dato ininfluente, mettendo in conto anche la sua avventura come leader dei Cultivators. La carriera solista sviluppata in parallelo è quella che lo ha portato persino ad aggiudicarsi l'ambito "Songwriter of the Year" del Minnesota nel 2006. E' vero, posso già intuire l'ironia che scaturisce dall'intera faccenda: come se contasse qualcosa avere tra le mani un premio di tal fatta, magari con il fardello di doversi sobbarcare il paragone con il più importante songwriter di quella terra, ovvero sia Robert Zimmerman in arte Bob Dylan.
E non pensiate che fra i molti plausi ricevuti dalla critica locale in questi anni, non ci sia stato persino qualche incosciente capace di tirare fuori proprio quel nome.
Dan Israel, dal basso della sua onesta carriera di retroguardia avrà senz'altro ringraziato, commosso e un po' impacciato, sapendo in cuor suo che la sua vera missione è soltanto quella di poter fare un altro giro sulla grande barca della canzone americana. E così
Turning è l'ennesimo tentativo, magari più riuscito dei precedenti, di recitare al mondo le sue piccole ballate elettro-acustiche, nel solito stile dimesso e "poppettaro" che lo hanno contraddistinto sin dai suoi esordi con i citati Cultivators.
Questa volta c'è soltanto meno approssimazione e più attenzioni rivolte agli arrangiamenti, finanche una certa malizia nello scegliersi ottimi compagni di viaggio, musicisti con un curriculum da spendere e che potrebbero fargli guadagnare qualche interesse in più sulla stampa. Sempre licenziato dalla locale Eclectone e prodotto sostanzialmente in "Dan's basement", come ama egli stesso definire il suo studio casalingo,
Turning annovera fra gli altri Marc Perlman dei Jayhwaks al basso, Dave Boquist dei Son Volt al banjo e violino, John Muson dei Semisonic al contrabasso, Peter J Sands degli Honeydogs alle tastiere ed un'altra decina di amici di vecchia e nuova data.
Tutto svolto a regola d'arte, nonostante il risultato sia assolutamente in linea con il passato: non si tratta insomma di un salto di qualità né tanto meno della definitiva consacrazione. Ci restano fra le mani folk rock più sbarazzini del solito (
Counting on You, News to me, No One Ever Really Dies) e quel suono roots elettrico ed effervescente (
Hurt & Love, See You Grow e la stessa title track, con armamentario di steel, banjo e violini a colorare di alternative country le timbriche delle ballate) che ha fatto la fortuna della sua band in passato. Israel è un artigiano giudizioso, che vorrebbe forse osare qualcosa di più: quando si mette a fare il serioso folksinger cede tuttavia sotto i colpi della sua voce non particolarmente brillante (
Triangle, This World, Always on Her Own).
Meglio dunque continuare ad apprezzarlo come un solido rappresentante della provincia rock americana.