WILL HOGE (Draw The Curtains)
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  Recensione del  17/12/2007
    

Will Hoge, da Nashville, Tennessee, rappresenta oggi come oggi l'esempio più probante di continuità in una tradizione che pesca a piene mani dal serbatoio del country, del rock'n'roll e del rhythm'n'blues delle origini per arrivare ai grandi act degli anni 70, quelli ruvidi e incandescenti di Bruce Springsteen, Bob Seger e Tom Petty.
Se come introduzione vi sembra un po' troppo altisonante, be', dovreste dare un'ascoltata ai suoi dischi dal vivo: ne ha realizzati diversi, quasi uno o più di uno per ogni album "ufficiale", una sorta di tour-book costante per informare i fans circa lo stato di salute delle sue fiammeggianti scorribande on stage, ed è evidente che tanto la burbera eloquenza acustica di Almost Alone - Live At Smiths Olde Bar (2004) quanto il flusso di adrenalina ed elettricità dei vari During The Before And After (05)(devastante) e Again Somewhere Tomorrow ('07), tutti articoli registrati e distribuiti in regime di totale indipendenza, contengono un dinamismo, un febbrile contagio rockista e un'intensità oratoria non sempre riscontrabili negli speculari lavori in studio.
Che non sono affatto male, intendiamoci. Dall'esordio di Carousel ('01) fino all'ultimo, nerissimo The Man Who Kilied Love (06), passando per quel Blackbird On A Lonely Wire ('03) anch'esso tutt'altro che disprezzabile (seppur ammorbidito all'eccesso dalla produzione mainstream di John Shanks) e purtroppo persosi nel calderone di proposte con cui, all'epoca, le majors tentarono di acchiappare il fenomeno Americana, gli album di Will Hoge non sono mai venuti meno al compito di sporcarsi le mani con un blue-collar rock energico e irrequieto, impastato di rasoiate sudiste alla Black Crowes e di tenerezze accartocciate in un pugno di ballatone in egual misura composte da sentimenti e rimpianti.
Draw The Curtains, a sorpresa, potrebbe rappresentare la quadratura del cerchio, poiché è il primo episodio della carriera di Hoge a prediligere tempi medi e ritocchi perfezionisti da cantautore. È anche il suo disco più riuscito: meriterebbe cinque stelle, nel suo genere, ma per crudele contrappasso è proprio il fatto di essere un disco di genere che gli gratta via un po' di smalto. Non un capolavoro, quindi, ma lo stesso uno di quei piccoli, grandi album coi quali prendere subito confidenza e dalle cui storie d'amore stropicciate farsi riscaldare a lungo.
Già, perché Draw The Curtains, in fondo, non è altro che un lungo racconto d'amore messo in musica: un amore ora rabbioso e ora raddolcito, ora sferzante e pieno d'amarezza come il ricordo di una relazione andata a male e ora illuminato da splendide promesse reciproche come all'inizio di un nuovo rapporto. Un amore che evolve tra schiaffi e lusinghe, tra sarcastiche dichiarazioni di debolezza (When I Can Afford To Lose) e i giorni scorticati di un presente sempre a rischio di trasformarsi in nuvola di nostalgia (These Were The Days), tra le minuzie recriminatone di giornate sempre uguali a se stesse (Dirty Little War).
E dolorose richieste di aiuto e comprensione (I'm Sorry Now), fino ad arrivare all'ennesima e ancora una volta necessaria proclamazione di individualismo e solitudine della stupenda The Highway's Home, dove una pedalsteel fradicia di settantesco country-rock accompagna la coscienza di un musicista pronto ad asserire che "casa" e "strada" per lui corrispondono: "Con una custodia piena di sogni vuoti/Una chitarra dalle corde rotte/Un cuore colto in flagrante che vuole solo cantare il blues/La testa piena di canzoni di Hank Williams,/Mi spiace, tesoro, ma devo andarmene, /Perché questa strada è la mia casa".
Con l'eccezione dell'intenso affondo gospel di una Washed By The Water dedicata a New Orleans (nonché piuttosto aspra nei confronti dell'inettitudine dimostrata dall'amministrazione Bush nel gestire le conseguenze dell'uragano Katrina), le altre nove canzoni di Draw The Curtains srotolano una pellicola che assomiglia a quelle di John Cassavetes e i cui protagonisti, nei loro battibecchi e nelle loro repentine riappacificazioni, nelle incomprensioni e negli abbracci, evocano la scorza ruvida delle odissee sentimentali working-class ritratte in Mariti (Husbands, '70) o Una Moglie (A Woman Under The Influence, 74).
Ad abbinarsi alle immagini, ecco un r'n'r di bruciante fede tradizionalista, capace di ricordare le taglienti unghiate tra rock e boogie degli indimenticati Georgia Satellites e il rockwriting tutto chitarre e ululati soul dei dischi solisti del loro capobanda Dan Baird. Guarda caso, è proprio la sei corde di Baird, ospite spesso ricorrente nei dischi di Will Hoge, a serpeggiare nella summenzionata Washed By The Water, mentre altrove, per esempio nel selvaggio errebi di Sex, Lies And Money, è l'ombra della sua vecchia band (e dei suoi numi ispiratori: ad occhio e croce il Rod Stewart più scalmanato e il travolgente ciclone roots dei Creedence), a fare capolino.
Ma ci sono anche il pianoforte sanguinante dell'iniziale, soulful When I Can Afford To Lose, gli intrecci tra chitarre acustica e slide della magnifica Dirty Little War, la dodici corde byrdsiana di una These Where The Days che frizza quanto i migliori Gin Blossoms, un poderoso soul-blues di scuola Stax dominato dall'organo come Silver And Gold, quella meraviglia di rock-ballad singhiozzante che è la titletrack (con il B3 spettacolare di Rami Jaffee e i fiati di Scotty Huff) e il drumming favolosamente rootsy dell'ex-Wilco Ken Coomer a cucire il tutto.
Come già detto, Draw The Curtains non sarà un disco irrinunciabile, ma davvero, è tutto ciò di cui avete bisogno se dal rock'n'roll cercate ancora onestà, immediatezza e un po' di emozioni raccontate come se attacare la spina ad un amplificatore o sfogliare le pagine di un diario privato fossero esattamente la stessa cosa.