Con questo nuovo capitolo della fortunata serie
Live From Austin, Texas, il texano di San Antonio
Doug Sahm diventa uno dei protagonisti assoluti dell'intera collezione, che per la terza volta lo immortala negli studi dell'emittente KLRU. Difatti ci sono già stati un live accreditato al suo
Sir Douglas Quintet, purtroppo non eccezionale poiché registrato in un periodo i primi anni '80 di indiscutibile fiacchezza creativa, e uno intitolato ai
Texas Tornados da lui fondati assieme a Flaco Jimenez, Augie Meyer e Freddy Fenders, e da reputarsi a tutti gli effetti tra gli episodi migliori della collana. Collana che, gioverà ribadirlo, non brilla per qualità e risorse nel formato dvd (i quali paiono anzi girati da sordociechi cui viene sbattuta per la prima volta una telecamera in mano), ma sotto il profilo musicale permette di godersi performance quasi sempre eccellenti da parte di artisti non certo prolifici nel licenziare testimonianze dei loro passaggi on stage.
Col qui presente ed, tuttavia, il quartier generale della Austin City Limits rende finalmente giustizia al talento unico di un grande musicista che possiamo rimproverare solo di averci lasciato troppo presto. La serata in esame è quella del 14 novembre 1975: è da poco uscito lo spettacolare album solista
Groovers' Paradise (1974) e Doug Sahm si presenta sul palco in forma splendida. Dalla partenza col botto di una (
Is Anybody Goin' To) San Antone dove l'honky-tonk delle origini incontra parecchi grammi di cannabinoidi alla chiosa indiavolata di una
She's About A Mover da sei minuti abbondanti (e negli ultimi tre trasformata in un rutilante sortilegio ritmico alla Bo Diddley), ogni occasione è buona per strapazzare la tradizione, irrorare di melodie indimenticabili il tracciato country dei maestri del genere e ibridare rock, blues, jazz, tex-mex, soul, western-swing e musica cajun - un remix anfetaminico, insomma, di tutto ciò che ha sempre contraddistinto il sound inconfondibile di Sir Doug e che gli ha in pratica consentito di dare vita ai primi sospiri di quello che oggi viene comunemente definito "roots-rock".
Ma la peculiarità di
Doug Sahm, com'è noto, non risiede(va) soltanto nell'attitudine a mescolare le tante anime delle radici americane: impareggiabile è sempre stato anche l'approccio pigro, sornione, lazy e fumato ai lambicchi di questo meticciato, inevitabilmente propulso dallo stesso spirito alternativo e progressista che spinse l'autore, nel 1966, a lasciare il natio Texas (dove aveva esordito all'età di 11 anni, dove aveva condiviso il palco con Hank Williams e dove aveva appreso i rudimenti di chitarra, violino e mandolino), per aderire alle istanze del movimento hippy in quel di San Francisco.
Caratteristiche intatte nella sballata elegia country & western di
At The Crossroads come nel countreggiare visionario di una
Mendocino spesso deragliante nel rock'n'roll più sbrindellato. Del nucleo originario del Sir Douglas Quintet sopravvive soltanto Augie Meyer, ma è abbastanza perché il suo Farfisa scoppiettante e spiritato riesca a cucire steelguitars e scossoni rock: succede per esempio in una
Nuevo Laredo da arresto cardiaco e nella
Dynamite Woman che subito la segue facendo capire cosa sarebbe potuto succedere se i Beatles si fossero trasferiti in Texas. L'apoteosi della festa la si tocca in un medley che con beata incoscienza sfoglia senza soluzione di continuità tra il doowop vintage di
Crazy Baby e
Sometimes, il r'n'r à la Elvis di
One Night e il tex-mex sciccoso della
Wasted Days & Wasted Nights di Freddy Fender. E che dire poi, dell'acidissima cover di un bluesaccio tutto assoli come la
Stormy Monday di T-Bone Walker? Niente, ascoltare è più importante. Ma se vorrete dire qualcosa, immagino sarà quella stessa cosa che penso io ogni volta che mi capita di riascoltare
Doug Sahm: sono sempre i migliori ad andarsene troppo presto.