I figli di Bill sono nella fattispecie tre ragazzi di Charlottesville, Virginia, tre fratelli, James (voce e chitarre), Sam (idem come il primo) e Abe Wilson (voce, piano, organo e banjo) decisi a poroseguire gli insegnamenti che il padre ha sapientemente infuso durante la loro adolescenza. Ci provano i
Sons of Bill, ennesima roots rock band dalla defilata provincia americana a tentare la fortuna sulle strade tracciate in questi anni dai maestri del genere.
La conduzione famigliare del gruppo nasce da un'unione di intenti abbastanza singolare, ma in fondo un archetipo di tutti i sogni di rock'n'roll che nascono ai margini. Nell'autunno del 2005 la folgorazione arriva dopo che James e Sam si ritrovano tra le mura di un appartamento di Brooklyn, ripassando velocemente qualche vecchia country song che Bill aveva tramandato ai ragazzi. Ognuno viveva al momento una propria vita di studente, agli angoli del paese, sparsi tra il Nevada, il Maryland e New York.
Il richiamo della Virginia, l'aria di casa e scatta qualcosa di magico: il primo nucleo dei Sons of Bill è una realtà che si completa di li a poco con l'inserimento di Seth Green al basso e Todd Wellons alla batteria. Le southern roads rievocate nella copertina sbiadita reclamano il contenuto di un disco che promette quanto si poteva già intuire dalle radici dei ragazzi:
A Far Cry from Freedom è un fresco tentativo di ripercorrere sentieri selvaggi a suon di country rock e feeling sudista, mediando fra le tradizioni "conservatrici" di famiglia e un sound da college rock band più moderna.
Pur nelle ristrettezze canoniche della produzione,
A Far Cry from Freedom riesce nella combinazione con un atteggiamento sciolto e frizzante: merito delle belle armonie vocali e di un suono roots elettrico, dove le chitarre tengono stretto il timone, ma non disdegnano di addolcire la ricetta con inserti di piano e banjo.
Brillante più di ogni altra cosa la prima parte, con una sequenza di ballate svelte e accattivanti: si parte con la muscolosa e southern
Far Cry, gemella di una vivace
Texas, il tutto spezzato dai toni agresti di
My Hometown e dalla rock ballad pianistica e affascinante
Roll on Jordan. Onesti gregari forse, ma padroni della materia: nei testi riecheggiano le small town di John Mellencamp e nelle chitarre gli up & down del rock'n'roll più genuino.
Non ci sono cadute di tono anche come prevedibile, nell'ideale seconda facciata, nella quale, esclusi l'honky tonk di
Ballad of Middle-Aged Heartache e le gradazioni pop rock di
Savannah Rain e di
Whispering si preferiscono toni crepuscolari da quelli positivi
Making it through the night alle note acustiche di
Too far gone e
Metaphysical Gingham Gown, non troppo riuscite. Poco male, non di certo scalfiscono il risultato finale, e poi c'è tutto il tempo per crescere.