BRUCE SPRINGSTEEN (Magic)
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  Recensione del  19/10/2007
    

Di "magico" (titolo per nulla springsteeniano e copertina orrenda) in questo disco non c'è molto se non il presupposto per entusiasmare un'altra volta le arene di tutto il mondo con la proverbiale energia e generosità di cui Bruce è capace. Al di là di quello che sarà lo Springsteen live, una delle cose meravigliose che il rock ha regalato alle nostre vite, vediamo da vicino come è fatto questo disco. Magic è stato concepito innanzitutto per essere portato in concerto e da questo punto di vista funziona.
Le sue canzoni e i suoi refrain sono orecchiabili e facili da memorizzare, c'è una coralità che si presta al sing along collettivo (You'll Be Comin' Down, I Work For Your love e Long Walk Home ne sono un esempio) permettendo all'autore e alla E-Street Band di scatenare tutta la loro carica, è un brano allegro e festoso dal titolo ironico (Livin' In The Future) che sulla falsariga di brani quali Glory Days, Out In The Streets e Sherry Darling ricrea la brillante atmosfera di quello shuffle newyorchese creato mettendo insieme i ritmi della strada e le canzoni di Dion & The Belmonts e i Drifters, ci sono almeno tre rokkettoni da sparare a mille, uno che ha la violenza di un brano dei Pearl Jam (Radio Nowhere) e due che sono un fiume di chitarre in piena (Gypsy Biker e Last To Die).
C'è una canzone che è un po' la summa dell'album anche se il titolo non è proprio originale, Long Walk Home e poi ci sono due canzoni che suonano "strane" nel repertorio di Springsteen perchè a basso tenore di rock n'roll e invece intrise di quella tradizione canora americana che parte da Roy Orbison e arriva a Brian Wilson. La prima, Your Own Worst Enemy, gioca di enfasi e sfiora l'operetta rock, continua a lasciarmi perplesso anche dopo ripetuti ascolti, la seconda, Girls In The Summer Clothes, è un trionfo melodico degno del Brian Wilson di Pet Sounds, poche chitarre, tante tastiere, arrangiamenti e un aria che, dopo l'imbarazzo iniziale, ti si appiccica addosso e ti trafigge il cuore come la più innocente e intrigante delle canzoni d'amore.
In realtà nel suo testo apparentemente innocuo delle ragazze nei loro vestiti estivi nel fresco della luce serale è nascosto uno dei temi del disco che è quello della nostalgia, una cartolina del passato dei bei tempi sulla promenade visti con un accenno di amarezza e tristezza. Dopo avere affrontato di petto la brutale realtà con The Rising ed essersi isolato nel deserto di un'America spaesata con Devils and Dust, ora Springsteen al posto di riannodare le fila del disagio interiore sceglie un viaggio a livello di suggestioni, di ricordi, di immagini. Non c'è rabbia nei brani di Magic, anche quelli più duri e rockati hanno in sé una velata malinconia, la melodia è in primo piano, nella sostanza le storie e i personaggi sono sempre quelli di Springsteen ma l'atmosfera ed il clima umano sono cambiati e ci vorrebbe una magia per tornare indietro.
Forse il magico del disco è proprio questo, Springsteen riesce ancora ad essere umano e romantico e ci sono canzoni come la ghostsong Terry's Song che se non fanno piangere poco ci manca, nonostante quello che è successo ed è cambiato attorno. Forse, esemplificando, c'è magia nella nostalgia. In Magic non c'è la rabbia impolverata di cenere di The Rising e nemmeno l'apocalissi incombente di Devils and Dust ma dietro alle ragazze nei loro vestiti estivi e al sax dei ricordi di Clarence Clemons c'è una radio del nulla e qualcuno che attende invano una telefonata che annunci il ritorno a casa del Gypsy Biker.
C'è un po' di Springsteen di ieri e tanto Springsteen di oggi in Magic, ci sono le canzoni che funzionano subito e te le immagini già in concerto e ci sono canzoni che hai sentito da qualche altra parte nei suoi dischi e questo è un limite, ci sono momenti più intimisti come Magic e Terry's Song che profumano ancora di folk e c'è un wall of sound di chitarre e tastiere e arrangiamenti che nel cercare l'impatto epico a tutti i costi, rischiano con la loro imponenza di offuscare la schietta energia analogica della E-Street Band, quella essenza rock n'roll di quando le chitarre suonavano da chitarre (le malizie di Nils Lofgren non si sentono), la batteria pestava meno quadrata e il piano una cosa distinguibile. La produzione di Brendan O'Brian ha dato quello che doveva dare e dopo due dischi adesso basta, le aspre chitarre di un tempo, il ritmo pulsante del R&B da sobborgo urbano e il pianoforte che fa l'opera lirica come in Jungleland (c'è un accenno nell'intro di I'll Work For Your Love) o in Racing In The Streets sono un lontano ricordo e anche le entrate del sax di Clemons, a parte l'inciso bruciante di Livin' In The Future, suonano un po' artefatte, ricostruite.
Il muro sonoro di Brendan O'Brian annienta le individualità, va bene coi Pearl Jam che hanno preso dagli Who e dai Led Zeppelin ma la EStreet Band è un'altra cosa, viene dal R&B e dal rock di strada, dalle canzoni di Elvis Presley e dei Creedence, dal soul lirico di Van Morrison e dagli Animals, modificarne l'essenza vuol dire snaturarla, standardizzarla. Brendan O'Brian ha avuto il pregio di far dimenticare un album brutto come Human Touch ridando nuovo vigore elettrico con The Rising ma adesso il sound deve ridiventare quello originario della EStreet Band. Quello dei concerti.
Qualche canzone di Magic suona già sentita, come se appartenesse in precedenza a qualche altro disco dell'autore. Non è facile ripetersi a livelli eccelsi quando si ha un songbook come quello di Springsteen ma, a parte Tom Joad che in quanto a liriche era un romanzo, il narratore di una volta sembra perso per sempre e quella magica alchimia di testo, refrain, ponte, melodia e arrangiamento che costituiscono la canzone e per cui Bruce era una sorta di prestigiatore, è un po' scemata. La cosa è avvalorata dal fatto che il miglior disco di Bruce degli ultimi quindici anni è quello delle canzoni altrui ovvero We Shall Overcome The Seeger Sessions, canzoni arrangiate, suonate e interpretate da Dio ma sempre di altri.
Vorrei sbagliarmi ma Magic non mi sembra uno dei dischi dell'olimpo di Springsteen anche se è pur sempre un buon disco che funzionerà soprattutto dal vivo. Detto questo infiliamo il cd nel lettore. Si parte con Radio Nowhere, il brano che è stato subito messo in rete. "Hey c'è qualcuno che vive là fuori?, voglio sentire solo un po' di ritmo, voglio mille chitarre e ritmi martellanti, voglio un milione di voci che parlino lingue diverse". Poche volte Springsteen è stato così esplicito, era già successo con 57 Channels (and nothin' on) ma adesso è ancora più diretto, Bruce rivendica il potere del rock n'roll e accusa il vuoto che ci propinano le radio e un sistema culturale a senso unico.
Dura, energica, mainstream quanto basta ma anche po' Pearl Jam, Radio Nowhere non è un brano trascendentale ma assolve al suo scopo, che è quello di aprire gli show. You'll Be Comin' Down parte con la chitarra acustica e la strofa "rose bianche e mistici occhi blu, rosse mattinate e poi nulla tranne cieli grigi" che fa presagire a un country zuccheroso e invece si fa strada una semiballata alla Lucky Town che lascia spazio ad una entrata di Clemons, ad un refrain facile da cantare e ad un sound magniloquente. Livin' In The Future è bella e furba, allegra e da ballare e ripropone lo Springsteen degli umori e amori newyorchesi.
Le strade di New York, il Bronx di Dion & The Belmonts e Brooklyn, il soul ed il R&B, soprattutto le atmosfere calde e ammiccanti di Dedication il disco di Gary U.S Bonds che Bruce produsse con Miami Steve. Qui si sente la E-Street Band della prima metà anni '80, il sound è quello dei Glory Days con tanto di don't worry darlin' e un nahnahnahnah finale. Your Own Worst Enemy, titolo che allude ad un nemico più interiore che esterno, una specie di killer inside me psicologico, veste i panni di una canzone ricca di arrangiamenti e di melodia, un po' stucchevole a dire il vero nella sua aria da operetta rock degna del Brian Wilson più paturnioso.
Va molto meglio Gypsy Biker coi suoi personaggi suburbani e blue collar. L'armonica dell'inizio sta tra The River e Morricone, poi le chitarre mollano fendenti. C'è il vento del deserto e il sangue, le moto con le cromature a lucido e gli amici, Brother John è ubriaco e gli speculatori vendono in Jane Street le scarpe e i vestiti dei veterani, sembra di essere ancora in Born To Run ma non è così, di sogni neanche a parlarne. C'è attesa per una telefonata che annunci il ritorno a casa di Gypsy Biker. "Urlavano che doveva essere una vittoria per i giusti ma non ci sono altro che tombe". Non si corre più, qui c'è il fantasma della guerra, le perdite, gli amici morti, la E-Street Band rulla dura un rock dai lunghi coltelli con il senso epico dei brani drammatici. Uno dei momenti migliori dell'album.
Voce profonda, chitarra acustica e poi entra la band, Girls In Their Summer Clothes è leggiadra come il titolo, ragazze nei loro vestiti estivi nel fresco della sera. Una ballata un po' melò che evoca i quadretti urbani dello Springsteen wild and innocenti le luci sopra il Pop's Grill, i neon, il Frankie's Diner, le Jersey nights. Romanticherie della boardwalk ma sotto la staccionata di legno cova la nostalgia delle cose perdute e dei tempi andati. In I'll Work For Your Love c'è il tocco di piano di Bittan che fa venire in mente per un secondo Jungleland e qui la nostalgia di Magic prende la forma di un dettaglio strumentale. A volte è il sax di Clemons, a volte l'armonica, a volte il piano, a volte una rullata di batteria, il gioco dei rimandi evoca il passato, suscita ricordi e riflette quella meravigliosa storia che è stata la E-Street Band.
I'll Work For Your Love è una canzone classica, solida e romantica, che infonde speranza e permette una coralità adatta agli spettacoli dal vivo. Ottimo il lavoro delle tastiere e della chitarra acustica. Sebbene dia il titolo all'album Magic non mi convince. Appartiene a quella schiera di canzoni intimiste e sussurrate inaugurate da I'm On Fire ma questa è un'altra cosa e l'abbiamo sentita altrove. E' una ballata tenue con arrangiamento di violini e mandolini, potrebbe appartenere a Devils and Dust anche senza essere rigorosamente folkie.
Ancora una amarezza, la libertà che cercavi è scivolata come un fantasma tra gli alberi, la metafora del mago è usata per alludere alle menzogne (quelle di Bush?), la desolazione ha ferito indelebilmente il narratore. Della serie rock epico, Last To Die sciorina tutto il suo potere chitarristico e suona come una nuova Roulette. Il sound è quello di Springsteen con Joe Grushecky in American Babylon, duro, sferzante, mainstream. Springsteen va un po' in falsetto poi rallenta e racconta di chi sarà l'ultimo a morire per un errore. Ricorda Further On Up The Road rivista in un altro modo e riprende il paesaggio apocalittico con la città in fiamme e l'oscurità. Splendida è Long Walk Home con un Bruce da manuale per una veloce ballata rock da scolpire nella pietra.
La chitarra acustica annuncia l'entrata della E-Street Band che arriva dopo un secco colpo di Weinberg. Qui, finalmente, la chitarra elettrica ricorda di aver suonato un giorno Prove It All Night e il sax di Clemons è un vero shout.. Sei stato fortunato a nascere in questa città, tutti avevano un vicino, tutti avevano un amico, ognuno ha una ragione per esserci ancora, la veteran's hall sulla collina è in silenzio e sola, il ristorante ha chiuso le imposte e messo un insegna con su scritto "gone". Lo smarrimento si mischia all'energia degli strumenti, Long Walk Home è il vero classico di questo disco. Dovrebbe essere affidata a Devil's Arcade la chiusura di Magic ma per fortuna non è così.
Esplicitamente politica, netti i riferimenti all'Iraq e ai soldati (servivano degli eroi, li hanno fatti) la canzone ha un incedere lento dove gli arrangiamenti acuiscono il senso del dramma. Tu dormi e sogni dei tuoi amici e ti svegli di soprassalto con la polvere del deserto addosso. Ennesimo riferimento al deserto, luogo fisico e luogo dell'anima. E' una chiusura triste e riflessiva, lenita però da una ghost song (Terry's Song) che sembra una ninna nanna contro il dolore. Commovente, Terry's Song appartiene allo Springsteen folk e sociale, quello che da Tom Joad arriva alle Seeger Sessions passando per i Diavoli e la Polvere. Una bella conclusione per un disco che entusiasma solo a tratti. Ci vediamo il 28 novembre.