MIKE FARRIS (Salvation in Lights)
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  Recensione del  18/10/2007
    

Ugola d'oro, quella di Mike Farris da Nashville, Tennessee. Corde vocali capaci di erompere nel ruggito metallico dell'hard-rock come di stirarsi in un morbido velluto soul degno di Donnie Hathaway. La conoscete se, al pari del sottoscritto, avete già consumato i due album degli Screamin' Cheetah Wheelies, band sublime sebbene durata troppo poco (cercate il loro Magnolia [1996]), dove la voce di Farris aveva appunto il compito di assemblare tonnellate di musica nera, i riff assassini degli Skynyrds e le derive strumentali degli Allmans.
Non si può dire che Salvation In Lights rappresenti un fulmine a ciel sereno: nel 2002 Farris aveva esordito da solista con un Goodnight Sun altrettanto prodigo di roots & soul, anch'esso concluso da un'eccezionale rilettura dello spiritual afroamericano Keep Your Hand On The Plow che presagiva le mosse future dell'artista. Ma qui siamo su di un altro pianeta. Farris dice di aver scoperto Dio dopo la bellezza di due overdosi e dopo aver consumato uno dietro l'altro tutti i cliché della vita da rock'n'roll star. Dice di considerare la musica alla stregua di una terapia per l'anima: un modo per far ritorno alla "casa del Padre" (nel senso di Cristo), nel tentativo di offrire al creatore le nude cicatrici di un peccatore in cerca di perdono. Oltre a dir questo, Farris incide per la INO Records, un'etichetta dedita alla promozione e al sostegno di artisti dalla dichiarata ispirazione cristiana.
Eppure vi assicuro che tra le note di Salvation In Lights non troverete né prediche né sermoni (né, tanto meno, l'eloquio assonnato di chi tenta di convertirvi ricorrendo a formulette opache mandate a memoria con scarso entusiasmo); anzi, mi viene da dire che se le parrocchie, i templi buddisti o le moschee programmassero più spesso musica di questo tenore, allora ci incontreremmo tutti i giorni in una circoscrizione ecclesiastica allo scopo di ballare, cantare ed elevare inni al cielo con tutto lo slancio della nostra fede rockista.
Salvation In Lights è un disco nato col preciso intento di lodare il Signore, è vero, ma al tempo stesso risulta pure un grandioso viaggio nella cultura musicale del sud e nei suoni di New Orleans, Memphis e Nashville condotto attraverso una sapiente combinazione di soul, errebì, gospel e rock'n'roll. Diviso tra brani autografi, classici blues (penso alla stupenda rivisitazione à la Subdudes della Sister Rosetta Tharpe di Can't No Grave Hold My Body Down) e traditionals, l'album riesce perfettamente nel compito di esaltare lo spirito senza deprimere la carne.
Lo testimonia l'intensissima, melanconica A Change Is Gonna Come collocata all'incirca verso la metà del cartellone: non voglio dire valga l'originale di Sam Cooke o le riletture di Aretha Franklin e Otis Redding, ma di sicuro non sfigura né per pathos né sotto il profilo della performance vocale. C'è poi molto altro, a cominciare dal gospel imbottito di funk d'una Sit Down Servant che apre le danze come avrebbero potuto fare gli Asbury Jukes di Southside Johnny catapultati in una chiesa, fino ad arrivare ai fiati alticci di I'm Gonna Get There, dove lo swing di Louis Armstrong convola a giuste nozze con il country sbuffante di Johnny Cash.
In mezzo si trovano l'assolo incendiario di una Take Me (I'll Take You There) che brucia d'orgoglio sudista, l'orgiastica festa creola di Devil Don't Sleep, il frenetico piano dixieland di Precious Lord Take My Hand e una The Lonely Road per la quale Al Green, oggi come oggi, sarebbe forse disposto a uccidere. Se poi Oh Mary Don't You Weep e Streets Of Galilee vi sembrano due pezzi del miglior Bill Withers non avete sbagliato disco, atmosfere ed arrangiamenti sono proprio quelli. Certo, Salvation In Lights è un album intento a parlare di redenzione in toni talmente mistici da correre il rischio di provocare ripulsa di rigida osservanza secolare. Ma credetemi: regala così tanti piaceri terreni che privarsene in ossequio a uno speculare integralismo laico sarebbe - quello sì - un vero peccato.