Tra il blues della Baia e il revival rockabilly che conobbe una fugace stagione all'inizio degli anni 80,
Jeffrey Halford è un songwriter e chitarrista di San Francisco cresciuto dentro l'anima dell'American music, incrociando radici bianche e nere e tenendo ferma la stella polare del rock'n'roll. Nulla di nuovo e trascendentale, soltanto una manciata di buone canzoni, una carriera partita come spesso accade dalla strada, da autentico busker, ed un seguito sempre crescente che lo ha portato ad esibirsi quale spalla di Los Lobos, Dave Alvin, Guy Clark e altri eroi di queste pagine.
Broken Chord è il sesto giro in carriera e prosegue il positivo riscontro artistico del predecessore
Railbirds, già ampiamente raccontato da queste parti. Tenendo fede al sodalizio con gli Healers (Rich Goldstein alle chitarre, Paul Olguin al basso e Jim Norris dietro i tamburi), ma allargando la squadra con qualche comparsa tutt'altro che secondaria (l'organo inconfondibile di Augie Meyers nel rendez vous tex mex di In a Dream, e ancora le chitarre di Bruce Kaphan, anche produttore), la nuova raccolta si attiene all'essenzialità di questa musica (trentasei minuti e non un secondo di più o quasi) ma affinja l'esperienza in fase di arrangiamento. Non è roots rock di grana grossa quello di Jeffery Halford, semmai un melting pot affascinante di southern rock, blues memphisiano e sprizzate country da border che sancisce al sua crescita di autore.
Un piccolo disco ed una voce in gran spolvero (che ricorda a tratti Bocephus King) che racconta storie credibili dai margini dell'America: si potrebbe partire dalla sinuosa
Lousiana Man e dalle ombre fosche di
Katrina, attraversata dall'armonica di Jellyroll Johnson e da pochi concetti ma assai precisi…"
and a government that had no shame/ waiting on a rescue that never came". Il tenore di
Broken Chord resta ancorato a questo canovaccio, regalando così un distillato di rock'n'roll dall'aria perdente e bluesy, qualcosa sulla linea di personaggi dimenticati e minori quali Kevin Gordon e RB Morris. Ricordano i dischi di questi ultimi il cuore pulsante "american graffiti" in
Rock'n'Fire,
Running Crazy e nella sintomatica
Rockabilly Bride, svolazzanti brani resi succulanti da un lodevole lavoro al piano ed organo (Skip Edwards e lo scatenato John R Burr), oppure il tradizionalismo blues, per chitarra acustica e slide di
Ninth Ward.
Più aguzzo e notturno invece l'incedere di
Dead Man's Hand e
Chicken Bones Jones, gli episodi più maturi e interessanti del disco, qui davvero vicini alla sensibilità del citato Bocephus King, perlomeno quello degli esordi. Tutto questo nonostante
Jeffrey Halford non rinunci alla purezza del suo songwriting: più folk e meno elettricità in
10 Minutes e
Two King. Un laborioso artigiano ed un insospettabile autore, Halford è uno di quei minori che potrebbero fare la felicità di molti appassionati.