JEFF BLACK (Tin Lily)
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  Recensione del  18/10/2007
    

Confesso che avevo una voglia disperata di parlar bene del nuovo album di Jeff Black. Non per il solo piacere di farlo, è ovvio, ma perché speravo di trovarmi tra le mani un disco che fosse all'altezza di quel piccolo, inaspettato capolavoro di B-Sides & Confessions Vol.1, a mio giudizio il regalo più bello ed emozionante di tutto il 2003. Invece no, Tin Lily è un disco sì riuscito, diciamo "grazioso", ricco di tante buone intuizioni che però non riescono mai a tradursi in un discorso perfettamente compiuto. Che peccato! Quando si dispone di un talento raro, com'è raro il talento di Jeff Black, ascoltarlo frenato dalle briglie di un formato inopportuno non può che rattristare. Dacché è evidente, Jeff riesce a esprimersi al meglio nei tempi lunghi, nelle dilatazioni surreali di una lunga ballata triste, nella ruminazione sul proprio sconforto protratta almeno per 5 minuti.
I dodici brani di Tin Lily non sono poco riusciti poiché mal scritti o mal suonati, ci mancherebbe: il suono è quello limpidissimo e immediatamente classico di un grande album degli anni '70, con chitarre, organo e armonica ad amalgamarsi in modo assolutamente fantastico, e l'ispirazione dell'autore non è di quelle che scompaiano da un titolo all'altro con un colpo di spugna. Tutto al posto giusto, quindi? Già, persino troppo giusto, se mi passate il paradosso, visto che in troppi casi sembra di ascoltare, piuttosto che tracce compiute, le sforbiciature delle stesse, bignamini spersonalizzati di canzoni grandissime soltanto in potenza. Penso ai sublimi rintocchi elettrici di una Easy On Me che si vorrebbe soltanto durasse il doppio allo scoppio di dispiegarsi in tutta la sua potenza di fuoco o all'intro lancinante di una Libertine in cui non si capisce perché il volume di quelle chitarre non sia un po' più alto.
Questo per quanto riguarda i brani più convenzionalmente rock, e comunque provvisti di una loro notevole dignità. Sul fronte opposto è impossibile non innamorarsi di una struggentissima Nineteen che, nell'asciuttezza della propria malinconia, rappresenta al meglio quella che sarebbe dovuta essere la bussola dell'intero lavoro, invero illuminato dalla presenza di alcuni comprimari - Dave Jacques al contrabbasso, Will Kimbrough alle chitarre elettriche, Kate Campbell e Matthew Ryan ai controcanti (ma questi ultimi due vi sfido a rintracciarli) - capaci di elevare a stato dell'arte anche il più abusato mestiere.
Insomma, parlare di un'operazione arida equivarrebbe ad usare un metro di giudizio eccessivamente severo, ma è innegabile che Tin Lily, e sia detto con sommo rammarico, cerca in più di un occasione di porre un freno alle bordate emotive delle canzoni. In fondo, cos'altro attendevano il country-soul di Free At Last, la springsteeniana How Long o lo sferzante Jackson Browne di All Days Shine se non la possibilità di estrinsecare tutta la loro bellezza senza vincoli di durata? Alla prossima, caro Jeff, stavolta entrambi col cuore in mano.