SAM BAKER (Pretty World)
Discografia border=Pelle

     

  

  Recensione del  09/09/2007


    

La prima volta in cui sentì qualcuno cantare una storia fu da Johnny Cash: la madre non la smetteva di far suonare quel disco, Ride this Train, e Sam Baker si innamorò al primo istante dell'America che The Man in Black andava narrando, prima ancora di prestare attenzione ad una singola nota. Da allora, perso in una piccola cittadina texana a sud ovest di Dallas, è passato molto, troppo tempo: Sam Baker lo ha tracorso sulla strada, come si conviene ad un ragazzo che da grande vuole diventare uno storyteller fatto e finito.
Oggi che non è certo un novellino può raccogliere i frutti di una vita un po' alla deriva, compresa una morte scampata per miracolo durante un attentato su un treno, mettendo in fila volti, vicende umane, quotidianità spicciola che vanno a colorare la tavolozza della sua musica. Mercy, soltanto due anni fa, era stato una rivelazione per chiunque avesse a cuore l'antica arte del songwriting, una raccolta di folk song aspre e poetiche, un romaticismo figlio di alcuni irriducibili loner della canzone d'autore come Townes Van Zandt e Guy Clark. Sono nomi e paragoni artistici che inevitabilmente sbucano fuori anche in occasione del nuovo lavoro, Pretty World, altra manciata di ballate attraversate da quel piglio un poco incerto e naif che contraddistingue la sua voce: strascicata, sorniona, vera. Sam Baker fa parte di una specie in via di estinzione e chi è in cerca del nuovo che avanza o anche solo di un "new kid in town" capace di rivitalizzare il suono Americana si faccia da parte: qui ci sono short stories degne di uno scrittore navigato, versi che sono piccole schegge, una bellezza brusca, intensa, racchiusa in poche linee descrittive, pennellate veloci che denotano lo stile "svogliato" di Baker, il suo essere fuori dai giochi perché senza tempo.
Uno che inaugura un disco con un brano intitolato Juarez, ripetendo ad ogni strofa "he sings waiting around to", ha già tracciato un solco, delineando un ritratto dell'umanità che andrà a raccontarci. Nello specifico è una ballata contraddistinta da un suono desertico con la steel di Mike Daly (anche slide guitar) e l'accordion di Joel Guzman, due fra i tanti amici rapiti dal talento di Baker: potete aggiungerci Lloyd Maines, Walt Wilkins, Gurf Morlix (con il quale ha girato l'Italia lo scorso anno)e le voci di Marcia Ramirez, Chris Baker-Davies, Britt Savage e Davis Raines. Hanno tutti appreso l'arte della moderazione, cucendo attorno ai racconti in musica di Sam Baker un country rock parsimonioso, quando non un vero e proprio asciutto sound acustico allo John Prine, altro punto di riferimento imprescinbile.
In tal senso non passano inosservate Odessa - aperta da una citazione del traditional Hard Times Come Again No More - e ancora di più la filastrocca commovente di Boxes. In generale si assiste ad uno "scontro" fra la dolcezza roots dell'accompagnamento musicale, tra cui Orphan, Slots e la più elettrica Psychic, con il ruvido contenuto dei testi e dei personaggi che li animano, sempre e comunque aperto ad una struggente poetica folk, che nel finale dimesso di Broken Fingers e Days (liriche in spagnolo e inglese) riduce tutto quanto all'osso.