BRANDON JENKINS (Unmended)
Discografia border=parole del Pelle

          

  Recensione del  15/08/2007
    

Brandon Jenkins è uno di quei songwriter che meritano di essere portati alla luce: un autore prolifico che amalgama red dirt sound con texas music con schiettezza; abrasivo e con croste d'elettricità quanto basta, nei cromosomi delle sue canzoni troveremo dosi robuste delle sua discendenza "Red Dirt" che, con poche note [tutte al posto giusto], estrinsecano sentimenti e visioni strigliate. Da qualche anno l'uomo si è trasferito in quel di Austin e qui si è ben integrato nel circuito che conta e tracce del suo operato compositivo lo rintracciamo nelle collaborazioni con gente come Stoney LaRue, Red Dirt Rangers, Billy Vera, No justice, Lester Chambers and others; ha tra l'altro diviso poi il palco con tipi del calibro di Willie Nelson, Hank Williams Jr, Pat Green, Cross Canadian Ragweed, Mavericks, Jerry Jeff Walker, Jack Ingram, Ray Willie Hubbard ecc.
Non è quindi un novellino, ma un competente & maturo artigiano della canzone; al suo attivo ha un pugno di dischi di buon spessore tra cui vale la pena di nominare l'ottimo Down In Flames e il recente , ma anche Live At The Blue Door, The Ghost Of Jesse James o l'esordio di Tough Times Don't Last sono stimolanti e degni di attenzione. L'album che stiamo esaminando Unmended è stato edito nel 2002, ma per qualche oscura macchinazione del fato è presto scomparso dalla circolazione, grazie al buon riscontro dei già citati Down In Flames e è tornato ora ad essere disponibile; con Brandon ci sono Mark Meeker (drums), David Percefull (electric & acoustic guitars, Hammond & Rhodes piano), Don Morris (bass), Jared Tyler (lap steel, resonator guitar) e qualche altro amico.
Apre il disco My Feet Don't Touch The Ground, song serafica ed equilibrata, premiata con il "winner of song of the year at the 2003 Oklahoma Red Dirt Music Awards. In My Heart fa scorrere i suoi solchi con passi quieti e narrativi, chitarre acustiche, un drumming spazzolato e un velo d'armonica disegnano spirali malinconiche; l'attiva Austin è intitolata alla città che lo ha adottato, il sound è un honky tonk dove brilla il pianismo boogie di Brian Lee, subito dopo arriva Refinery Blues, song di spessore e consistenza che con la splendida Fly On promuove all'eccellenza l'album in oggetto. Fly On è una di quelle canzoni che vorresti trovare spesso nei dischi che compriamo: ha un andamento notturno e guizzi di chitarra che ti portano in alto, oltre le finestre blu che stanno dietro le stelle...
Nelle increspature di Texas Moon respiriamo spifferi del border e pulviscoli porpora & blue lasciati propagare nell'aria senza assistenza; la title track Unmended è una song profonda e introspettiva, che apre i pugni per rivelare una malinconia recondita che scorre nell'anima. Hear Those Engines Wind è un'altra di quelle tracks corrugate che danno carattere a un disco che cresce man mano che le canzoni racchiuse si susseguono, è un'altra di quelle songs che qualcuno dei nostri eroi firmerebbe carte false pur di accaparrarsela. What's A Man To Do e Good Talkin' To e la conclusiva The Rain sono più che apprezzabili e ben congeniate nella loro ossatura e nelle loro iridescenze seppiate e perlacee.
Quella di Jenkins è musica onesta e le sue canzoni hanno la forza della vita reale e delle vicende spiegazzate che bene o male tanti di noi si portano in tasca, vale la pena dedicargli un ascolto.