WARE RIVER CLUB (Cathedral)
Discografia border=parole del Pelle

  

  Recensione del  31/05/2004
    

I Ware River Club (WRC da qui in poi) sono un quintetto di giovani musicisti provenienti dal New England (Northampton, Massachusetts per l'esattezza), formatosi nel 1998 e con già all'attivo due albums (The bad side of Otis Ave e Don't take it easy, molto acclamati dalla critica locale). Matt Helbert è il leader della band, voce solista e principale songwriter, oltre che chitarra acustica, coadiuvato da Matt Cullen (chitarre, basso e tastiere), Bob Hennessy (chitarre soliste, steel e mandolino), Scott Helland (basso) e Don McAulay (batteria).
Cathedral è il loro nuovo disco, ed è indubbiamente il più maturo e compiuto: le sonorità sono pop-rock con profonde venature roots, toni agresti e pacati anche nei brani più elettrici, con canzoni assolutamente non banali, dalla vena introspettiva molto marcata. Helbert e soci prediligono le ombre alle luci, i toni soffusi e crepuscolari, ma non annoiano assolutamente: il riferimento più indicato è Gram Parsons, ma hanno qualcosa anche del Neil Young più "campagnolo", oltre che di gruppi più recenti come i Jaykawks.
Dodici brani, cinquanta minuti di musica piacevole e ben costruita. Long way down inizia lenta, con tinte scure, per poi crescere con l'arrivare del refrain, trasformandosi in una ballata elettrica molto memorizzabile. L'eterea e corale Ocean size, con i suoi suoni quasi sospesi per aria, precede la tenue If I accidentally take your life, dai toni bucolici e pastorali (anche se il ritmo nella parte centrale è sostenuto). Broken light, elettroacustica e piuttosto interiore, confluisce nella bella Midnight, contraddistinta da una melodia di grande impatto alla quale si affianca un accompagnamento fluido ed intenso.
Cathedral, lenta e pianistica, è un altro brano ricco di pathos, dove non viene buttata via una sola nota; List ha un grande intra chitarristico ed uno sviluppo roccato che porta energia al disco. Certo, i WRC non inventano nulla, ma hanno un suono personale, sono onesti e mantengono desta l'attenzione dell'ascoltatore. The wire è puro cantautorato roots, la ritmata The deep end e la rockeggiante Bring it on (che ricorda un po' i R.E.M.) confermano la bravura di questi cinque ragazzi.
La discreta Roll on down e la delicata Up again, per sola voce e chitarra, chiudono il disco: un buon lavoro, che denota amore per la musica, rispetto per i classici ed una buona predisposizione a scrivere canzoni di livello. Hanno un futuro.