Come già si era intuito nei processi che hanno portato a Forever Hasn't Happened Yet,
A Year In The Wilderness conferma la vistosa maturazione di
John Doe. Il songwriter e il cantante sono cresciuti di pari passo con lo sviluppo dei dettagli delle canzoni: se una volta era Dave Alvin (ora lanciato verso tragitti più raffinati) a raccontare tutte le Motel Chronicles californiane, oggi il più credibile narratore di quelle atmosfere e di quei paesaggi di desolazione umana e non.
Il musicista ha saputo lasciarsi alle spalle l'energia devastante degli X, senza mai tradirla o rinnegarla, si è accorto di aver anticipato i tempi con i Knitters, un'esperienza estemporanea finché si vuole ma fondamentale per il recupero di certe radici e si è reiventato catalizzatore di talenti. A scorrere quelli coinvolti per
A Year In The Wilderness c'è da applaudire a scena aperta per il gusto e la classe, un misto di gioventù ed esperienza che farebbe felice qualsiasi coach: un ispiratissimo (come sempre, del resto)
Dave Alvin alle chitarre coadiuvato dall'onnipresente Greg Leisz, Jamie Muhoberack all'organo e al piano, Dan Auerbach, un pezzo dei Black Keys alle chitarre, Byran Head e Carla Azar alla batteria, Dave Carpenter al basso.
Più un trio di donne perché John Doe si è sempre trovato a meraviglia con un controcanto femminile: non c'è Exene Cervenka (che però partecipa alla stesura di
Darling Underdog), ma Kathleen Edwards, Aimee Mann e Jill Sobule rendono l'idea nello stesso modo. Dopo il frammento elegiaco di
The Wilderness, giusto una piccola sigla, arriva subito l'aria da "lupi affamati" di
Hotel Ghost, una grande canzone, con Dave Alvin scatenato all'elettrica, come se tra i Blasters e gli X non ci fosse più alcuna differenza. E così finirà che Dave Alvin infilerà The Golden State nel seguito di West Of The West un'altra notevole prova del songwriting di John Doe impreziosita dalla voce di Kathleen Edwards che qui ricorda i toni di Exene Cervenka degli ultimi X, quelli di See How We Are, per intenderci.
All'uno e due rutilante dell'inizio segue una prima ballata,
Darling Underdog, dai toni crepuscolari, ma perfetta nei suoi tratti romantici. La linea di demarcazione con l'altra metà di un anno vissuto nella natura selvaggia è
A Little More Time, in gran parte acustica, molto vicina al mondo dei Knitters e splendida. Da lì in poi, salvo il particolarissimo finale di
Grain Of Salt,
A Year In The Wilderness si biforca. Da una parte una tripletta di rumorose "songs from the garage" come le chiamerebbe Tom Petty:
Unforgiven e
There's A Hole, e il grandissimo rock'n'roll di
Lean Out Yr Window riprendono l'elettricità delle battute iniziali e si sente con una certa chiarezza che l'istinto degli X è ancora tutto intatto.
D'altra parte,
John Doe sfodera anche una trilogia con diverse interpretazioni dell'idea di slow song:
Big Moon, The Bridge e
The Meanest Man In The World sfiorano le corde più crepuscolari e notturne, giocando con suoni lowfi, ma con grande gusto. Le due facce di
John Doe convivono infine in
Grain Of Salt che comincia con una dolcissima chitarra acustica, appena accennata e con un crescendo inaspettato si trasforma in una bruciante e tormentata cavalcata psichedelica. Una tra le più belle canzoni scritte da John Doe, che di suo ci mette anche un'ottima interpretazione. Un gran bel disco e un John Doe in stato di grazia.