RYAN ADAMS (Easy Tiger)
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  Recensione del  15/08/2007
    

Anche se abbiamo in mano una copia senza alcuna notizia, come non parlare, seppur col beneficio dell'inventario circa i nomi dei musicisti coinvolti (come ospite sappiamo però che c'è Sheryl Crow in Two e la band che accompagna Ryan sono i fidi Cardinals ed alla chitarra solista c'è Neal Casal, una nostra vecchia conoscenza), del nuovo album di quello che Stephen King, nel breve commento realizzato appositamente per Amazon.com, definisce il miglior cantautore nordamericano dai tempi di Neil Young (il fatto che il bisonte sia, in effetti, canadese non toglie sostanza alla veridicità dell'affermazione)?
Pensate, Ryan Adams, trascurando per un momento gli anni trascorsi alla guida dei Whiskeytown (ovviamente tutt'altro che trascurabili sotto il profilo artistico), ha esordito soltanto sette stagioni fa, con la sbrindellata, memorabile, alcolica poesia alt.country di Heartbreaker (2000), e da allora è riuscito a tirar fuori dal cilindro ben 9 diversi album.
Un risultato non da poco, e non solo da un punto di vista strettamente quantitativo, giacché il sottoscritto farebbe una fatica boia a dover scegliere soltanto uno tra i suddetti dischi. I quali, piaccia o non piaccia l'apparenza costantemente sopra le righe del personaggio, sono riusciti a coniugare il verbo del rock americano con una passione, un'innocenza e uno slancio pressoché unici nel panorama contemporaneo: al netto delle esagerazioni dell'artista, era da tanto tempo, forse dagli anni eroici di un Bruce Springsteen o dalle prime mosse compiute in area major dal mai troppo lodato Paul Westerberg, che aspettavamo qualcuno che fosse capace di affrontare ogni nuovo lavoro come se dovesse essere l'ultimo, sempre mosso da una fame inesauribile di vita, amore, rabbia, tenerezza e rock'n'roll, sempre deciso ad azzannare ogni brandello di canzone come se ognuna di esse dovesse contenere tutte le canzoni del mondo.
Ecco il punto troppo spesso frainteso dai numerosi poseur delle ultime generazioni di critica e pubblico, che non perdono occasione per liquidare Ryan alla stregua di un passatista qualsiasi: non si rendono conto di aver di fronte il più brillante tra i continuatori di una tradizione quella della formacanzone come la conosciamo dal Dylan di Highway 61 in poi che non è e non vuole essere autosufficiente (difatti è aperta alle più disparate contaminazioni: dal country agli Oasis, dal folk duro e puro a Prince) ma trova il proprio cardine espressivo nell'approfondimento e non nell'innovazione.
Sicché le canzoni di Ryan Adams sono come la Rimini di Federico Fellini, come il suono mercuriale di Bob Dylan, come le nature morte di Giorgio Morandi, come lo Springsteen che ruba il titolo a un brano di Sam Cooke per scrivere un altro capitolo della sua epopea romantica e proletaria; rappresentano, in altre parole, lo scavo testardo, paziente e assai più complesso di quanto possa apparire intorno a uno stesso concetto, nella fattispecie quello della canzone quale Bildungsroman adatto a raccontare le piccole incertezze del vivere, la crescita e il ripensamento, l'orgoglio e la malinconia. Da questo punto di vista, viene voglia di dar ragione a Stephen King (che di rock'n'roll se ne intende) e affermare a gran voce che Easy Tiger potrebbe davvero essere il disco migliore di Ryan Adams.
Se non altro uno dei più completi, perché non è difficile leggerlo, a posteriori, come l'anello di congiunzione tra il rock straccione di Cold Roses, il country-rock di Jacksonville City Nights e l'introspezione cupa di 29, i tre album del 2005 che avevano aggiunto ulteriori tasselli nel prolifico puzzle della carriera di un musicista tanto ammirato, dagli appassionati di classic-rock, quanto guardato con sospetto da tutti gli altri. Il suono di queste tredici canzoni nuove testimonia come meglio non si potrebbe della recente fissazione di Ryan per i Grateful Dead degli anni 70, esplorando le sfumature tra radici e scossoni rock di canzoni concise e polverose, rootsy e tradizionaliste (quindi più American Beauty che Workingman's Dead), sovente debitrici del mito della frontiera riletto in chiave neo-hippie da formazioni come New Riders Of The Purple Sage e Pure Prairie League, che Ryan ha imparato a conoscere e ad amare frequentando Adam Duritz dei Counting Crows.
In certe tracce, per esempio l'iniziale, perfetta Goodnight Rose, con le sue scariche elettriche da western psichedelico e un tempo impossibile di batteria che farebbe la felicità di un Jim Keltner, è impossibile non pensare alla magniloquenza on the road di una Truckin' e all'approccio surreale, libero e disinvolto di Garcia & Co. al rock delle radici. Altri episodi, si veda quella plumbea e stupenda ballata per chitarre e percussioni (con un bell'intermezzo di rasoiate elettriche) che risponde al nome di Off Broadway, potrebbero invece essere già noti presso i fan di stretta osservanza in quanto circolati, anni addietro, in numerosi bootleg del progetto The Suicide Handbook, una serie di foschi bozzetti acustici mai pubblicati ufficialmente.
Come nei momenti migliori di Cold Roses, in Easy Tiger non c'è quasi alcun segnale di "produzione" (il che non significa che i brani non siano perfettamente arrangiati): soltanto la traccia vocale in prima fila, e gli strumenti subito dietro, ma sempre mixati a un livello leggermente più basso, in modo che ogni pezzo conservi un feeling caldo e vintage, tra il buona la prima e il più organizzato live in studio.
A contrappuntare la superba elegia rock'n'country di Two (a quando un album di Emmylou Harris interamente dedicato alle composizioni di Ryan?) c'è la voce di Sheryl Crow, che doppia con discrezione quella del titolare nel chorus It takes two / When it used to take one, ma per rendersene conto bisogna saperlo in anticipo. Per il resto, Easy Tiger contiene semplicemente alcune delle migliori canzoni che Ryan abbia mai scritto, dalle springsteeniane Rip Off e The Sun Also Sets, con quegli inserti di pianoforte a bagno in una cascata di chitarre che fanno tesoro dell'esperienza accumulata dall'autore prima producendo e poi comparendo negli album di urban Americana dell'amico Jesse Malin.
A ballate folk di cruda semplicità e desolata bellezza Pearls On A String, Oh My God, These Girls - dove l'approccio alla tradizione ricorda in certi momenti la sgangherata poetica outlaw dei Green On Red e in certi altri le dimensioni country e folk attraversate con calma olimpica da Willie Nelson. La naturalezza di un altro apocrifo deadiano dello spessore di Tears Of Gold autorizza a pensare che Easy Tiger possa essere, in un certo senso, l'album della maturità di Ryan Adams, quest'ultima intesa non nei suoi significati di ponderatezza ed equilibrio, bensì in quello di perfezionamento, tanto che lo stesso titolo sembra un'invocazione rivolta a se stesso circa l'opportunità di prendersi tutto il tempo necessario a sviscerare i misteri della canzone. Stupenda, poi, è l'armonica che fende l'aria di un altro piccolo capolavoro di suggestioni roots e folk quale la conclusiva I Taught Myself How To Grow Old, che sembra rivolgersi alla medesima Rose della traccia d'apertura (qui è la Poor little Rose beaten by the rain che il narratore, invecchiato senza amore, osserva da lontano, là era la ragazza cui veniva rivolto l'invito If you get scared just take my band) ipotizzando una circolarità e un'ampiezza di vedute che sono l'asso nella manica dell'intero Easy Tiger.
Assieme, naturalmente, alla proverbiale immedesimazione dell'artista, capace di affrontare il rosario di recriminazioni di Halloweenhead (What the fuck's wrong with me?) con un trasporto così plateale che quando lo sentiamo chiamare Guitar solo! Un attimo prima dell'esplosione elettrica della sei corde viene quasi voglia di alzarsi in piedi e alzare le braccia verso un palco immaginario, neanche fossimo a un concerto vero e proprio. L'unico rimpianto, di fronte a un disco come questo, è che stavolta, entro l'anno, non siano previsti altri due gemellini a tenergli e a tenerci compagnia.