HOLD STEADY (Live at Fingerprints)
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  Recensione del  15/08/2007
    

Questa è la miglior band americana attualmente in circolazione. Negli States dicono "America's #1 bar band", ma io toglierei il "bar" e direi soltanto che sono i migliori. Punto. Inutile specificare che possono risultare tali soltanto se, come a chi vi scrive, l'idea di un gruppo in grado di combinare il romanticismo metropolitano di Bruce Springsteen con la ruvida angst esistenziale dei Replacements (entrambi conditi con un'arsenale di riff rubati a qualche disco dei primi Ac/Dc) potrebbe convincervi all'attesa di un secondo avvento.
Tre album in tre anni - Almost Killed Me (2004), Separation Sunday ('05), lo spettacolare Boys And Girls In America ('06) - hanno ingigantito a dismisura la reputazione di Craig Finn (chitarra e voce), Tad Kubler (sei corde solista), Franz Nicolay (fisa, armonica e tastiere), Galen Polivka (basso) e Bobby Drake (tamburi), proiettandoli dall'oscura retrovia delle mille rock band di provincia sul palcoscenico assai poco affollato dei nomi su cui fare cieco affidamento per il futuro.
Nelle canzoni e nelle liriche di Craig Finn ci sono ossessioni ricorrenti (l'abuso di droghe, il senso di colpa derivante dall'educazione cattolica, il cinema americano), grandi squarci d'iperrealismo e un senso del dettaglio narrativo che lo collocano di diritto tra i grandi scrittori della sua generazione; nel suono degli Hold Steady ci sono drappeggi di pianoforte che rimandano al classic-rock degli anni '70, devastanti break strumentali all'insegna del più torrido r'n'r made in Usa e bordate chitarristiche che ringhiano, sgommano e macinano esplosioni elettriche con un'intensità viscerale che avrebbe fatto arrossire persino i Thin Lizzy o Mick Ralphs. Com'è possibile non innamorarsi perdutamente di un songwriter che si presenta al mondo con le parole "The 80s almost killed me / Let's not recall 'em quite so fondly" appiccicate su di una tempesta rockinrollistica tutta scatti e nervosismo?
Ma è un amore ovviamente non condiviso da tutti: ancora ci sono integralisti dell'underground che, oltre a non tollerare il pianoforte "bittaniano" di Nicolay, lamentano il (relativo) successo guadagnato dai nostri e soprattutto l'hype artatamente cucitagli addosso dalla stampa britannica in primo luogo, mentre i talebani della tradizione tuttora schifati dai loro frequentissimi deragliamenti punk non si contano più. Sarà il tempo, come sempre, a ristabilire le giuste proporzioni nel giudizio, ma intanto questo Live At Fingerprints, ep di 5 canzoni in tiratura limitata, sembrerebbe disporre della capacità di mettere d'accordo un po' tutti.
Cinque canzoni acustiche o quasi (è comunque della partita un discreto flusso di percussioni) a dimostrare che gli Hold Steady non sono, o non sono soltanto, rockers tardoadolescenziali con la fissa per Paul Westerberg, bensì una band ormai provvista di un repertorio di brani inattaccabili e capace di arrangiarli nei modi più fantasiosi ed efficaci. Il nocciolo di questa esibizione, per una volta, non sta tanto nel prosciugamento degli orpelli d'esecuzione effettuato allo scopo di giungere al cuore delle canzoni e delle loro melodie (cioè il principio alla base di quasi tutti gli unplugged sinora pubblicati): la sfida è quella di suonare altrettanto travolgenti ed incalzanti anche con la spina staccata, e l'obiettivo viene centrato in pieno.
Lo dimostra l'intrinseca brutalità rock dell'iniziale Cattle And The Creeping Things, qui rinsecchita nei rantoli di Finn, negli sbuffi della fisarmonica e in una chitarra acustica strapazzata senza pietà, eppure ancor più aguzza e abrasiva dell'originaria versione di studio. Chips Ahoy assomiglia a una boutade acustica dei Counting Crows svegliatisi con un terribile mal di testa da doposbronza, e il freddo disincanto con cui Finn ulula il verso "How am I supposed to know that you're high if you won't even dance? / How am i supposed to know that you're high if you won't let me touch you?" vale da solo il prezzo del biglietto. E a proposito di sbronze, alla fine del disco Finn spiega che il titolo di You Gotta Dance With Who You Came To Dance With è nato una sera quando, dopo quattordici birre e la proposta di passare allo scotch, il bassista Galen Polivka ha declinato l'invito rispondendo proprio con quella frase: quasi ovvio che la rilettura del pezzo si trasformi in una sbrindellata cavalcata bluesy dominata dalle storture dell'armonica.
Prima ci sono state anche la poesia derelitta e recriminatoria di Citrus, ovverosia il lamento ubriaco di un marchettaro alcolizzato ("Lost in fog and faith and love was fear / I've had kisses that make Judas seem sincere"), e l'apoteosi di paranoia drogata di You Can Make Him Like You ("They say you dont have a problem until you start to do it alone / They say you dont have a problem until you start bringing it home / They say you dont have a problem until you start sleeping alone"). Ora come ora, con le loro istantanee di periferie suburbane, ragazzi in cerca di un metodo per uccidere il dolore, regular guys proletari che affrontano settimane tutte uguali alle altre attraverso bevute omeriche e corse a perdifiato verso il nulla, gli Hold Steady rappresentano la porzione livida e sanguinante del rock'n'roll con cui siamo cresciuti e col quale vogliamo sognare ancora. Live At Fingerprints comprende cinque canzoni e ottiene cinque stelle: una per ogni canzone, e ognuna di esse ne meriterebbe almeno il doppio.