Sono passati 28 anni da quando le porte del successo sembrarono aprirsi per un giovane di belle speranze grazie a un album ben riuscito,
Jackrabbit Slim, e un singolo che varcò la soglia della Top 20,
Romeo's Tune, un piccolo gioiello che resta una delle tappe fondamentali della discografia di
Steve Forbert, cantautore del Mississippi che all'epoca attirò molte attenzioni e i soliti paragoni altisonanti, Dylan in primis. Le porte si chiusero senza che il giovane potesse intravedere ciò che dietro si nascondeva, i soliti problemi con la casa discografica e un lungo periodo di inattività posero fine al sogno di un artista che può ricordarci la storia di molti beautiful loser a noi molto cari.
Ma Forbert non ha mai mollato, anzi, ha superato il periodo di crisi riaffacciandosi sulla scena grazie alla sua indomita voglia di fare musica, quella che piace a noi, lontana dagli stereotipi livellanti di un business che forse oggi non piace più neanche a chi lo propone.
Steve è un cantautore gentile e intimista che spazia nell'ambito di un folk-rock tradizionale e genuino, con qualche accenno pop nella sua migliore accezione, per quello che ormai è diventato il suo marchio di fabbrica, un sound spesso elettro-acustico che raggiunge i migliori risultati nelle ballate costruite con garbo e classe da vendere. Una voce particolare, qualche splendida traccia lasciata sul percorso (mi riferisco a quel
Mission Of The Crossroad Palms del 1995, a mio modesto avviso il suo album più intenso e più bello di sempre, prodotto dall'Estreeter Garry Tallent, che più volte ha collaborato con l'artista, come nel caso del disco in questione), fino a
Strange Names, che giunge a tre anni di distanza dall'ottimo
Just Like There's Nothin' To It e segna il suo esordio per l'indipendente 429 Records.
Oltre al bassista Tallent lo aiutano nell'impresa Tim Coats, che insieme a Forbert condivide la maggior parte della produzione, Paul Errico al piano, organo e tastiere, Marc Muller e Anthony Crawford a vari strumenti e Roger Clark alla batteria. Da ricordare che Errico e Clark figuravano anche nei credits di Jackrabbit Slim.
Le dodici canzoni si muovono su binari ormai familiari all'artista, che se non aggiunge niente di nuovo sotto il sole fa in modo che i suoi raggi riscaldino sempre con un'intensità che gli è propria e che manca alla maggior parte della produzione di oggi. Si inizia con la trascinante
Middle Age, che si colloca alla perfezione nel suo repertorio, un uptempo di straordinario vigore che fa vibrare le corde del cuore, una presa di coscienza in tono agrodolce delle gioie e i dolori della mezza età (e lui, che ha da poco passato i cinquantanni, ne sa qualcosa). Sfido chiunque a restare inchiodato alla sedia.
Il magistrale uso dei fiati (la tromba di Wayne Jackson) e la spolverata finale di piano rendono il pezzo un piccolo gioiello di eleganza e sapidità, uno dei suoi brani migliori da molto tempo a questa parte. La title track
Strange Names strizza l'occhio a un pop di facile ascolto, ma sempre con il marchio dell'artista che si fa sentire rendendo il brano piacevole e ben confezionato,
Simply Spalding Gray è un accorato omaggio a un attore/scrittore incompreso e purtroppo vittima di un tragico destino (a proposito, da rivalutare), mentre le classiche ballate
Man, I Miss That Girl e la semi acustica
You're Meant For Me si pongono nel novero dei suoi ritratti romantici più riusciti.
I Will Sing Your Praise ha invece connotazioni religiose, un gradevole brano dotato di un bellissimo intermezzo strumentale accarezzato dall'uso magistrale del mandolino,
Something Special prende avvio dalla tromba di Jackson e sembra quasi un brano texmex per poi adagiarsi su una dolce melodia scalfita dall'armonica e da una classe sopraffina,
My Seaside Brown Eyed Girl è invece una ballata che inizialmente riporta alle atmosfere minimali di
Mission, Thirty More Years richiama l'iniziale Middle Age riprendendone le tematiche.
Menzione a parte per
The Baghdad Dream, un rock-blues elettrico e arrabbiato che mostra il versante politicizzato dell'artista, a dire la verità sempre abbastanza lontano da questo genere di denuncia (ricordo la bella
Good Planets Are Hard To Find e
The Oil Song), e per la strumentale
Around The Bend (anche in questo caso una tipologia di canzone a lui inusuale, rammento solo Lucky dall'album Little Stevie Orbit del lontano 1980), bella incursione nei meandri country-folk con tanto di pedal steel (Robby Turner). Il disco si chiude con la rilettura del classico
Romeo's Tune, bellissimo nella sua tersa intensità lambita da organo e armonica, un classico che non ha risentito affatto del peso della mezza età.