Finalmente abbiamo tra le mani l'atteso secondo lavoro dei Deadnecks, band originaria del Kentucky che ci aveva positivamente impressionato con il CD d'esordio del 1998, intitolato
Tornados & Trailers.
What was I thinkin'? continua il discorso aperto quattro anni fa: il gruppo, più che mai saldamente sotto la leadership di
Skip Bethune (autore di tutte le canzoni e voce solista) continua a proporre una gustosa miscela di rock, roots, country e folk, con un pizzico di sapore cajun ed il songwriting tipico di gente come Townes Van Zandt (il punto di riferimento maggiore anche dal punto di vista vocale), Johnny Cash, Bob Dylan, Joe Ely.
Non esagero nei paragoni: se nel mondo discografico le cose andassero come dovrebbero, i Deadnecks meriterebbero di incidere per qualsiasi major, e non far fatica persino a veder pubblicate le loro canzoni. Qui ci troviamo di fronte veramente ad un piccolo grande album, uno dei migliori degli ultimi mesi a livello indipendente, di pura e genuina American Music; Bethune è il principale responsabile della riuscita del disco, ma non dimentichiamo anche gli altri componenti del gruppo:
Jeff Yurlowsky all'hammond e fisarmonica,
Curtis Burch al dobro (uno degli strumenti protagonisti del sound),
Matt Presby alle chitarre elettriche,
Lorne Ralls al basso,
Billy Block alla batteria,
Mike Daly alla pedal steel,
Ollie O'Shea al violino,
Eric Holt al piano e
Ray Flack alla seconda chitarra. Come vedete un gruppo numeroso, che però riesce a dare al sound un'omogeneità ed una compattezza invidiabili.
La title track apre l'album in maniera scoppiettante: un rockabilly dal ritmo irresistibile (sullo stile dei Blasters), con un gran lavoro di piano e la voce distaccata ma carismatica di Bethune a condurre il brano da manuale.
Two kinds of highways è una frizzante country song dal ritmo veloce, con steel e dobro sugli scudi: ottima da ascoltare durante un viaggio lungo le strade americane. L'album entra nel vivo con la splendida
Anchor bar: una grande border song, tra West e Mexico, con un suggestivo accompagnamento di dobro e fisa, e Bethune che un po' parla e un po' canta, dando al pezzo un pathos notevole. L'unico difetto del brano è che è troppo breve.
Rollin' on mantiene il disco su alti livelli: un country rock molto evocativo, ritmo sostenuto ed una di quelle melodie che chiedono di essere risuonate all'infinito.
Ballad of Glen Rogers racconta in prima persona la storia di un fuorilegge, uno dei tanti losers di cui è pieno il mondo cantautorale americano: solo Skip voce e chitarra, ma non serve di più per emozionare. Il grande Townes l'avrebbe di sicuro fatta sua.
Too close to the flame è un gustoso country'n'roll che potrebbe trovar posto anche in un disco dei Tractors, mentre con
You'll never know siamo in pieno territorio cajun: gran ritmo, fisa e violino che dominano ed il brano scorre come una bibita fresca in estate.
Miss Montana è puro country, ma ben lontano dal mondo di Nashville;
Jack, George, Early and Jim è un altro racconto western: mi sembra di vederli i quattro del titolo che cavalcano insieme nel tramonto di qualche vecchio film, mentre cominciano a scorrere i titoli di coda. L'album si chiude con altre tre perle:
Sweet Roxanna è un valzerone texano che piacerebbe un sacco a uno come Joe Ely,
I don't think so è una ballata più rock che country,
Broke down è un'oasi acustica, tenue e gentile, che chiude in maniera positiva un album quasi perfetto. Una sicura conferma per Bethune e soci: speriamo soltanto di non dover attendere altri quattro anni per il terzo disco.