MATTHEW RYAN (From A Late Night High Rise)
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  Recensione del  16/04/2007
    

Dopo il controverso esperimento a nome Strays Don't Sleep, Matthew Ryan non sembra affatto intenzionato a cambiare rotta: From A Late Night High Rise sviluppa e perfeziona tutte le intuizioni di quel disco tra l'elettronico e il modernista, cercando di annettere all'alfabeto della canzone rock alcune tracce di contemporaneità già affacciatesi negli ultimi lavori di Joe Henry, di Michael McDermott o dello stesso John Mellencamp.
Lo dimostra il ruolo fondamentale qui giocato da Nelson Hubbard, che nel progetto citato rappresentava un vero e proprio alter ego di Ryan e anche qui contribuisce in misura determinante all'allestimento di un scenografia sonora fredda, astratta, quasi incorporea. Molti riferimenti stanno ancora al loro posto: a incorniciare il tutto, nel booklet, c'è infatti una citazione dallo Springsteen di Atlantic City ("Forse tutto ciò che muore prima o poi torna indietro"), e talvolta, al solito, affiorano omaggi assai espliciti al Tom Waits più notturno e bevuto o al tormento rockista di Paul Westerberg.
Non solo: quando la citazione è manifesta, Ryan ha l'umiltà e il buon senso di dichiararla a chiare lettere, tanto che la sei corde effettata di Love Is The Silencer viene indicata tra le liner-notes come "chitarra alla I Will Follow", con lampante strizzata d'occhio agli amati U2 del periodo wave. Nel complesso, direi che From A Late Night High Rise assomiglia a un'ipotesi più organica e coerente del sentiero battuto con gli Strays Don't Sleep, dacché non è un disco di "canzoni" in senso stretto, bensì un contenitore di bolle trasparenti di suono sintetico, ora squarciate dal sussulto rabbioso del rock'n'roll ora sempre più rarefatte e distaccate, fino a raggiungere l'apoteosi afasica di June Returns For July (27 secondi di synth illividito) o della conclusiva The Complete Family (derelitto spoken-word con sottofondo di rumorismi assortiti).
Alcune tracce, tuttavia, sono semplicemente così belle da starci male: l'oceano acustico dell'affranta Gone For Good e del suo inciso di armonica ultra-springsteeniano, la pioggia di feedback della devastante Misundercould, il pop romantico e appiccicoso di And Never Look Back o Everybody Always Leaves, il lancinante inchino ai Clash di Babybird e le carezze in distorsione di All Lit Up valgono la carriera di tanti mestieranti con poco altro a disposizione all'infuori della propria buona volontà. Altri episodi, per esempio la robotica cover della Providence che fu dei Church, lasciano invece spiazzati per inconcludenza e approccio glaciale.
I momenti migliori di From A Late Night High Rise fotografano le ampie vedute di un autore che non rinuncia a sorprendere e a sfidare se stesso, quelli meno riusciti ne ricordano la copertina: una panoramica confusa, in attesa di definizione, un esperimento cromatico passibile di aggiustamenti, con lo svolgimento dei temi relativi alla scrittura dei pezzi spesso in posizione ancillare rispetto alla ricerca di un suono dai contorni ancora incerti.
Voto troppo generoso, quindi? Non per il sottoscritto: alla base delle canzoni di Matthew Ryan c'è ancora la malinconia terminale che l'ha sempre contraddistinto, l'istintività ferita di un animale che cerca spazio tra le inferriate della sua gabbia interiore, un malessere rabbioso e sgomento che grida sofferenza da ogni nota: per nessun motivo al mondo rinuncerei per l'ennesima volta a farci i conti.