Non è il primo live dei
Richmond Fontaine ma quello più recente, quello che registra il loro cambiamento dopo un esordio a base di duro roots-punk. La sede è quella congeniale all'estetica asciutta e spartana del gruppo ovvero un lounge bar di Portland, la loro città, il tour è quello relativo al penultimo disco
The Fitzgerald, lavoro ambientato nell'omonimo hotel di Reno dove Willy Vlautin, il cantante e leader del gruppo, si è rintanato e ha scritto tutte le canzoni dell'album. L'inizio dello show è proprio all'insegna del tema sonoro di quel disco: musica acustica, dimessa e scarna, un quasi folk in cui la voce esitante di Vlautin si erge come un canto di dolore sopra storie che paiono scaturire dal grande nulla del Nevada, dove silenzi e polvere avvolgono uomini e paesaggi.
Welhorn Yards, Exit 194B, Laramie Wyoming, Don't Look and It Won't Hurt, Disappeared, The Warehouse Life e Black Road sono dolenti cimeli di quel disco, un Nebraska dell'alt-country suonato prestando attenzione più ai silenzi e alle pause che ai rumori. I
Richmond Fontaine sono in sei ma in questi brani sembrano in tre, agre chitarra acustiche ed elettriche (Dan Eccles, Willy Vlautin) accarezzano le canzoni prima che la sezione ritmica di Dave Harding e Sean Oldham e le tastiere di Mike Coykendall facciano sentire la loro presenza. Quest'ultimo è abile col suo piano a creare un senso di soffocante angoscia in
Disappeared, canzone resa ancor più plumbea da un violoncello (Collin Oldham) perfettamente drammatico.
Bella è anche
The Warehouse Life, brano con cui si apriva The Fitzgerald che dal vivo assume tonalità gothic-country care a
Willard Grant Conspiracy ma per incontrare il loro rock lancinante e a tratti visionario bisogna aspettare i pezzi di
Post To Wire, il loro lavoro più commestibile.
Barely Losing e
Through anticipano quello che è uno degli highlights dello show ovvero una acida e disperata
Hallway, una melodia oscura infarcita di violoncello, feedback chitarristici a briglia sciolta e deliri desertici.
Montgomery Park e
Post To Wire chiudono la selezione dei brani di quell'album ma lasciano l'amaro in bocca, l'assenza di
Willamette, una ballata tra Nebraska e Zuma che è la miglior cosa fatta finora dai Richmond Fontaine, è roba imprescindibile per uno show che si rispetti. Come pure l'assenza della ‘lamentosa’ pedalsteel di Paul Brainard elemento fondamentale per il suono visionario e da grandi spazi del gruppo.
In questo i RF dimostrano ancora delle ingenuità, sono coerenti alla loro immagine lo-fi e non fanno nulla per mascherare la trasandatezza e la ruvidezza sonora di un roots-rock tutto anima e niente forma ma peccano nel scegliere i tempi di uno show mettendo a sedere il pubblico quando questo è ormai eccitato e pretende un finale come si deve. Vlautin e soci invece non concedono nulla e dopo una scalpitante
Post To Wire smorzano i toni, prima con una pianistica
Haven't Got Forever, poi con la diafana melodia
Making In Back e con
Always On The Ride dove i miraggi country&western di un esangue Gram Parsons sono abbastanza evidenti, infine col ripristino del copione di The Fitzgerald attraverso la lenta
The Janitor e la malinconica
Casino Lights. Un finale in sordina, come vuole la loro poetica loser e il loro atteggiamento da basso profilo.