JESSE SYKES & SWEET HEREAFTER (Like Love Lust & The Open Halls of the Soul)
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  Recensione del  25/03/2007
    

La maturazione del songwriting di Jesse Sykes e l'evoluzione sonora degli Sweet Hereafter, backing band che vede ancora nel compagno e chitarrista Phil Wandscher (ex Whiskeytown, vale sempre la pena ricordarlo) un tassello insostituibile, hanno sempre viaggiato di pari passo. Se il loro esordio doveva ancora affrancarsi da una confezione musicale molto legata a certo folk-rock ombroso e malinconico, già il successivo Oh, My Girl era stato una testimonianza della crescita di quel sound, capace di aprirsi alle diverse anime della tradizione. Like Love Lust & The Open Halls of The Soul ne porta a compimento le intuizioni con uno stile che pur conservando tutte le caratteristiche del passato, allarga enormemente le potenzialità della band di Seattle.
Al centro nuovamente la voce di Jesse Sykes, un sussurro rauco e sentimentale, non esattamente bella e uniforme, ma dotata di un innegabile fascino decadente. Calza come un guanto sui riverberi delle chitarre di Wandscher, così come si rivela il compendio migliore per interpretare liriche spesso vulnerabili, dotate di una fragilità e di una poesia che vuole soprattutto indagare le emozioni umane e le incomprensioni che ne possono scaturire.
Per esaltare questo connubio di parole e musica, Like Love Lust & The Open Halls of The Soul si è concesso una libertà di azione maggiore, solamente intuita nell'apertura di Eisenhower Moon, folk evocativo in cui serpeggia un'armonica, che si ricollega al precedente disco. Niente di più fuorviante, perché quello che segue è veramente quanto di meglio siano riusciti a fare sino ad oggi Jesse Sykes & the Sweethereafter, ormai a pieno diritto fra le grandi chanteuse americane al fianco di Neko Case o Cat Power.
LLL è il primo segnale di un'impronta elettrica più marcata e di ritmiche più risolute, un'estensione delle radici della band verso tonalità a sprazzi quasi psichedeliche, copiosi riferimenti alla stagione del folk rock dei sixties e ad una soul music vellutata (con l'hammond di Wayne Horvitz).
Caratteristiche che ritornano più volte nel corso del disco, dalle spirali di How Will We Know al passo elegante, trasognato di Station Grey e I Like The Sound, con i loro ripetuti incastri di voci e chitarre, fino alla magistrale accoppiata conclusiva costituita da Morning It Comes e Open Halls Of The Soul, quest'ultima un vero gioiello country rock accompagnata dalla viola di Anne Marie Ruljancich. Tra gli episodi più sintomatici di questa trasformazione sono tuttavia da citare anche You Might Walk Away, ballata che si cala in ambientazioni pop dove giocano un ruolo essenziale gli ospiti Micah Hulscher e Steve Moore al pianoforte ed organo, oppure la magnifica Air Is Thin, che si soda in un lungo canto sublimato dal finale gospel, con un efficacissimo tappeto della sezione fiati (la quale ritorna splendidamente nella coda di Aftermath).
Ancora una volta le chitarre "Morriconiane" di Phil Wandscher si assumono il compito di tenere insieme le parti e condurre le danze, uscendo trionfanti da una produzione (Tucker Martin) che pone un'attenzione maniacale nella ricerca di quello che un tempo si sarebbe chiamato il mood, il tutto immerso in un'atmosfera corale.