Abituati a svolgere i loro album come fossero dei film, traendo spunto da un concept che in
Winnemucca (2002) era l'omonima città del Nevada, in
Post To Wire (2004) le cartoline mandate dal fratello lontano e in
The Fitzgerald (2005) l'umanità perdente degli hotel a basso costo e dei casinò di Reno, i
Richmond Fontaine non abbandonano il loro stile narrativo e con
Thirteen Cities sceneggiano un viaggio in quell'America periferica che costituisce la loro essenza poetica. Un viaggio che dal Nevada li porta in Arizona e sul confine, condotto attraverso una musica triste e malinconica, a tratti visionaria che ben si addice agli schizzi descrittivi e valle short stories di Willy Vlautin, il Raymond Carver del rock, che dopo aver dato una ambientazione nebraskiana a The Fitzgerald, per
Thirteen Cities sceglie atmosfere scarne e folkie, a tratti minimaliste, canzoni e ballate inframmezzate da tracce strumentali che funzionano da soundtracke in cui è palpabile la solitudine e l'isolamento e una poetica attratta dai silenzi e dalla marginalità.
I
Richmond Fontaine con questo disco si confermano cantori di un America in bianco e nero in cui perdenti e provincia sono motori di una vita che non si desidera ma che continua ad alimentare un fascino sottile ed oscuro, proprio di tanta letteratura (e cinematografia). L'inizio del disco è decisamente cinematografico: orchestrazioni da colonna sonora introducono una marcetta dal vago sapore mariachi che trasmette la finta allegria del border, poi col lungo titolo di
$87 and Guilty Conscience That Gets Worse The Longer I Go si entra nel più tipico paesaggio sonoro dei RF ovvero un alt-country molto lo-fi dove i lamenti della pedal steel evocano spazi desolati e deserti, cittadine dimenticate, solitudine.
La voce di Vlautin è sempre esitante, quasi tremolante nella sua disperazione ma la sua dialettica della sconfitta è il punto di forza dei RF, così come la malinconica e "atmosferica" pedal steel di Brainard da alle ballate suggestioni da grandi spazi. Dopo
I Fell into Planting Houses in Phoenix, Arizona dove è ancora Vlautin a inquietare con la sua voce e armonica, con
El Tradito si entra nel vivo del film, una affascinante ballata strumentale con qualche distorsione degna dei Giant Sand più allucinati ricorda che spesso le storie dell'autore sono storie di sangue, paura e morte. Come in un B-Movie che non porta da nessuna parte se non in un nulla annunciato, i RF si fanno decisamente più cupi e con
Ghost I Became trasformano la loro musica in qualcosa di spettrale ed etereo.
Westward Ho regala scampoli di speranza con un country stralunato e per nulla conforme ai cliché del genere ma è
The Kid From Belmont Street il punto più alto del disco, una ballata sinistra e sfuggente, che potrebbe appartenere al Tom Waits di Orphans, segnata da rumori insidiosi e da un sax da film noir.
Tra ambient-folk, country, jazz e sperimentazione,
The Kid Belmont Street raggiunge i livelli del miglior disco dei RF ovvero
Post To Wire ed è l'apice di un disco,
Thirteen Cities, interessante e intrigante ma troppo frammentario per essere consigliato a chiunque. Molto Gram Parsons è
Capsized, mentre
Ballad of Dan Fanta ribadisce la struttura narrativa del disco con uno strumentale che si alterna a una canzone mentre
The Disappearance of Ray Norton è un talking parlato perfettamente funzionale al racconto.
4 Walls è un evocativo roots rock dalle aperture "cosmic country" e
Lost In This World è un laconico canto di voce, piano e un filo di arrangiamento che chiude un disco a tratti affascinante, a tratti evanescente, comunque coerente con l'estetica loser dei
Richmond Fontaine.