TOM WAITS (Swordfishtrombones)
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  Recensione del  20/01/2004
    

Tom Waits è uno dei massimi artisti rock (e non solo) lasciatici in eredità dal 900, opinione questa condivisa dalla quasi totalità dei fruitori della musica del diavolo, tanto che risulta onestamente difficile scovare denigratori del maestro di Pomona. Perché? Perché Waits si è costruito nell'arco di trent'anni di carriera una reputazione invidiabile, fondata su un'etica professionale mai scalfita da tentazioni commerciali o suggestioni divistiche, ma soprattutto su una serie di album di qualità elevatissima. Swordfishtrombones conserva, però, un sapore particolare poiché si impone come punto di rottura importante nella carriera di Waits; segna il netto e irreversibile mutamento da semplice, per quanto dotato, pseudo-crooner cocktail jazz da night club fumoso a erudito compositore post-moderno, in grado di concepire una sorta di musica totale, debitrice tanto ai maestri del cantautorato americano, quanto a forme musicali diverse, proprie del folklore afro, europeo e non solo.
L'amalgama di suoni tanto differenti ha dato vita a una serie di asimmetrie ritmiche, disarmonie e stonature cabarettistiche, che hanno però la stimmate della classicità, in quanto classici (nel senso di tradizionali, ormai patrimonio condiviso e decodificato) sono i modelli musicali che hanno generato i suddetti suoni. Dal punto di vista iconografico, l'arte di Waits è l'arte di un cantastorie che ha sempre contemplato l'America e i suoi ideali in modo critico, preferendo raccontare la cosiddetta "wrong side" dell'immaginario a stelle e strisce, abitata da vagabondi, anime erranti senza meta ("rain dogs") e da ogni genere di reietti.
In Swordfishtrombones, gli emarginati, ma più in generale i "looser" (ma non "beautiful"), rimangono i protagonisti. Il cuore concettuale dell'opera è dato dalla convergenza dicotomica salvazione-dannazione; i personaggi di Waits, dolorosamente consapevoli del proprio essere, sembrano quasi aspirare, in una sorta di vuoto etico, a un evento che, auspicabile o amorale che sia, funga da catarsi della propria condizione. E in questo senso il mood umbratile, a tratti depresso, dei pezzi fa di Swordfishtrombones una messa cantata, attraverso cui assicurare le anime irredente alla salvazione di un inferno paradisiaco, di sicuro maggiormente desiderabile rispetto all'atroce e inesauribile caducità della vita quotidiana.
Così si spiega la lucida e grottesca follia di Frank in Frank's Wild Years, o lo squallore celebrato in Gin Soaked Boy, stralci narrativi che rinnovano la figura archetipica del perdente oltre ogni plausibile possibilità di riabilitazione. Storie che nell'universo immaginifico della canzone americana costituiscono l'esatto contraltare della poetica springsteeniana. La nazione di Waits è abitata dal popolo dei bassifondi, rassegnato a vegetare al di sotto della soglia di sopravvivenza, tagliato fuori da una qualsivoglia possibilità di riscatto. Sono "freak" nella condizione sociale, nati con il marchio incancellabile dei vinti. Nella sua poetica è quindi sottintesa la critica all'America, ma anche ai cantori di regime che ne esaltano la grandezza , circa l'ipocrisia e l'indifferenza con cui costoro vengono trattati.
In Underground, la batteria scandisce una ritmica marziale da marcetta militare, mentre la chitarra elettrica asseconda le intonazioni vocali di Waits. La presenza di corno e basso acustico conferiscono al pezzo una dimensione rurale, richiamando alla mente le bande musicali in azione durante le feste di paese. Underground è forse la metafora di tutta la poetica waitsiana. Raccontando di una città (miniera) sotterranea, operosa mentre il resto del mondo dorme, Waits evoca quell'universo di miserabili, che quasi clandestinamente veleggia, come un relitto, nel mare dell'opulenza borghese. "They're alive, they're awake while the rest of the world is asleep" canta; sono vivi e continuano a esistere, nonostante l'indifferenza collettiva.
In un'atmosfera rarefatta, ma cupa, da film noir, Waits sfodera con Shore Leave, uno dei suoi esperimenti più geniali sulla commistione di sonorità difformi. Una ritmica da ballo afro-caraibico (favorita da marimba e tintinnii assortiti) accompagna un banjo bluesy che svisa free-form, con la voce profonda di Waits a completare questo nonsense collagistico di esotismo "swamp". Dave The Butcher è un piccolo gioiellino strumentale, dove basso e percussioni intrecciano un tappeto ritmico sbilenco, su cui l'Hammond va a posare una serie di frasi melodiche dall'effetto straniante, più che psichedelico.
La vena romantico-malinconica emerge nella splendida Johnsburg, Illinois, dove Waits, accompagnandosi esclusivamente con il piano e il basso di Greg Cohen, recita liriche che sarebbero più consone al repertorio di un Chris Isaak: "There's a place on my arm where I've written her name/ Next to mine/ You see I just can't live without her/ I'm her only boy and she grew up outside McHenry/ in Johnsburg, Illinois". Dopo tanto romanticismo, irrompe all'improvviso il crudo rock'n'roll di 16 Shells From A 30.6, uno dei classici del maestro di Pomona, e che potrebbe apparire come un pezzo di Beefheart suonato con la linearità ritmica dei Cramps.
Tirato dall'inizio alla fine, sembra echeggiare, per quanto riguarda la parte vocale, il ruggito spaventoso della bestia splendente in cattività. Da Town With No Cheer colano umori di una cittadina australiana (Service Town) abbandonata a se stessa, come si evince anche dallo scorrere del testo. L'atmosfera non potrebbe essere che desolata, con un Waits che biascica parole su un impianto sonoro eretto da elementi minimali, dopo una suggestiva introduzione di cornamusa a richiamare l'idea di una città-fantasma spettrale e solitaria.
L'accompagnamento di In The Neighborhood è realizzata da una vera e propria fanfara, integrata da strumenti percussivi e dall'immancabile organo Hammond. Più che una canzone, sembra un vero e proprio inno nazionale, a causa della solenne marzialità del ritmo, mentre dal punto di vista narrativo è sempre lo scorrere imperturbabile, ma modesto, della vita di provincia a essere immortalato; sembra di essere proiettati a Twin Peaks o, meglio, nella cittadina-scenario del "Cacciatore" di Michael Cimino, dove matrimoni, funerali e partenze per il fronte turbavano, ma solo in quell'istante/evento, l'umore di una comunità continuamente uguale a se stessa. Just Another Sucker On The Wine è un altro delizioso strumentale dove l'harmonium di Waits, dolcemente contrappuntato dalla tromba di Joe Romano, riesce a creare uno spleen malinconico. Ed è proprio l'atmosfera ombrosa-depressa il filo conduttore dell'opera, l'elemento capace di raccontare il contenuto delle storie prima ancora dei testi. Swordfishtrombones è una sorta di meta-concept sull'illusione di un riscatto sociale mai raggiunto, né raggiungibile a causa dell'oggettiva difficoltà a emergere da un contesto provinciale (nel senso deleterio del termine, e quindi privo di slanci culturali o anche solo economici). Nel delirio di Frank's Wild Years si perde ogni parvenza di civiltà, e le barbarie che ne conseguono sono il prodotto di una mente lacerata dal flusso incontrovertibile di una mediocre quotidianità. Frank dà fuoco alla sua casa, inebetito dall'illusione di una vita migliore ("Frank put on a top fourty station/ got on the Hollywood freeway/ headed north").
É la catarsi, la liberazione, il repentino affrancamento da una situazione di usurante immobilità. Il pezzo è un talking-jazzy dalle atmosfere fumose, con il basso acustico a inanellare giri mentre l'organo Hammond libra frasi free. Ancora una recitazione da commediante consumato in Swordfishtrombone, mentre in Down Down Down Waits sfodera il corredo semiotico degli arcaici bluesmen di provincia con tanto di ritmica incalzante, voce catramosa, deturpata da fumo e alcol, e storia allucinata che richiama il soprannaturale come metafora del quotidiano: "He went down down down and the devil called him by name/ He went down down down hangin' onto the back of a train". Waits plasma la materia blues a suo piacimento, e la padroneggia come solo pochi altri (Nick Cave e Captain Beefheart) sanno fare.
Il vertice emotivo del disco è però Soldier's Things, in cui Waits, trasfigurato in un Frank Sinatra del ghetto, narra di una scatola di una scatola di effetti personali appartenuta a un soldato caduto in battaglia. Ancora un bluesaccio da locale malfamato è "Gin Soaked Boy", con la chitarra elettrica a far la parte del leone come nei pezzi di B.B. King. Il ragazzo ubriaco di gin vaga "perso" nella notte senza una meta precisa. Trouble's Braids è un soliloquio maledetto alla Nick Cave, accompagnato da clangori percussivi e da un basso acustico che rende incalzante la ritmica.
Quell'iconografia "southern gothic" (fatta di "Swamp things", riti voodoo, corvi che banchettano su cadaveri dilaniati, catapecchie abbandonate teatro di relazioni incestuose), richiamata soprattutto dall'interpretazione messianica di Waits, si intravede, appena tratteggiata, tra le righe della narrazione: "Well I pulled on trouble's braids/ and I hid in the briars/ out by the quick mud/ stayin' away from the main roads/ passin' out wolf tickets/ downwind from the blood hounds/ and I pulled on trouble's braids/ and I lay by a cypress/ as quiet as a stone/ 'til the bleeding stopped/ I blew the weather vane off some old road house/ I build a fire in the skeleton back seat on an old Tucker/ and I pulled on trouble's braids". Chiude l'opera la strumentale "Rainbirds", dai toni tristi e rassegnati, a fungere da summa umorale dell'intero componimento.
Dai salmi di Robert Johnson agli abomini armonici di Captain Beefheart, passando per le disilluse abulie psichedeliche di David Crosby, sino ai più recenti Morphine, Neil Michael Hagerty e Black Heart Procession, cinquant'anni del cantautorato a stelle e strisce più malato e creativo trovano sublime deferenza in Swordfishtrombones, per il suo istituzionalizzarsi a documento poliedrico sulla root music americana e per il suo essere saggio postmoderno sulla reinvenzione del corpo blues sulla base di materiali musicali autoctoni, che nelle mani di Waits assumono carattere trans-etnico.