TOM WAITS (Foreign Affairs)
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  Recensione del  13/01/2004
    

Nel 1977 Tom Waits, il cantautore di Pomona, era reduce dalla pubblicazione di Small Change uno dei suoi dischi più riconosciuti dalla critica e impreziosito dalla presenza di canzoni leggendarie quali Tom Traubert's Blues e The Piano Has Been Drinking e decise di impegnarsi nel progetto per la realizzazione di Foreign Affairs, un disco dominato ancora dalla componente pianistica ma in cui già si intravvedono timidi segnali di cambiamento in un atmosfera come sempre emozionante e di altissimo livello compositivo.
La presenza di abili strumentisti inoltre non fa che mettere maggiormente in risalto le abilità oratorie del buon Tom. L'intro della strumentale Cinny's Waltz e il suo imperioso finale sono il preludio perfetto per un'altra canzone in cui la voce waitsiana tratta il tema dell'amore perduto, ovvero la toccante Muriel.
Il duetto con Bette Midler in I Never Talk to Strangers rivela in modo efficacissimo quanto sia arguto un testo adattissimo a un finale quasi crepuscolare che introduce un curioso medley jazzistico in cui vengono ricordate le figure di Jack Kerouac e Neal Cassidy oltre alla sua nascita californiana. Le sue tipiche bar-song malinconiche tornano prepotentemente in primo piano nella stupenda A Sight for Sore Eyesche prende il via ricalcando le note di un pezzo tradizionale come Auld Lang Syne.
I quasi nove minuti di Potter's Field, forti di un ottimo assolo di clarinetto da parte di Gene Cipriano, presentano alcune varianti particolari nel loro incedere noir e anticipano la grande drammaticità del finale di Burma-Shave e il pezzo più imprevedibile dell'intero disco, il beat-jazz di Barber Shop. A chiudere il disco troviamo invece la title-track, perfetto corollario dell'intero lavoro e caratterizzata da una maestosa compenetrazione tra abilità vocali e musicali e da una imponente base musicale nel finale.