BOB EGAN (The Glorious Decline)
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  Recensione del  18/12/2006
    

Da un certo punto di vista la carriera di Bob Egan assomiglia non poco a quello che potrebbe essere il perfetto pedigree virtuale di un qualsiasi musicista d'estrazione roots: dopo gli inevitabili primi passi all'insegna del "dopolavoro" e dei piccoli concerti just for fun, il nostro chitarrista, all'indomani del 1993, si imbarca in un tour con i Freakwater (nelle cui fila militerà per tre anni), viene poi spronato nientemeno che da Johnny Cash in persona ad abbandonare un lavoro "regolare" per la musica, si unisce ai Wilco per un biennio abbondante, regala il proprio contributo ai dischi altrui (Oh Susanna, The Tragically Hip, Cowboy Junkies e i Sadies tra gli altri) e infine, allo scoccare del millennio, viene assunto in pianta stabile dai canadesi Blue Rodeo, coi quali collabora ancora oggi.
Sono passati tredici anni da quel primo tour europeo con i Freakwater e a Bob Egan non è nemmeno mancato il tempo per debuttare in proprio, licenziando tra il '98 e il 2003 un gruzzolo di tre dischi l'omonimo, introspettivo Bob Egan, il più rockato The Promise ('02) e l'extended Lonesome Destiny sospesi tra desolate radiografie sonore della provincia americana e impennate rootsy in odor di Stones. The Glorious Decline non si accontenta soltanto di aggiungere un'unità al conteggio dei lavori solisti: il tentativo è altresì quello di raggruppare in un unico contenitore le suggestioni dei dischi precedenti e di spostarle con decisione verso un suono nuovo, verosimilmente ispirato alle ultime cose di Daniel Lanois e sviluppato intorno al feeling ambientale, malinconico e cinematico della pedalsteel. Non è ancora l'album strumentale di sola steel che Egan conta di realizzare al più presto, ma gli si avvicina parecchio. Il che, per quanto mi riguarda, è contemporaneamente un bene e un male.
Un bene perché gli episodi migliori del disco riescono a catturare come meglio non si potrebbe sentimenti di lontananza e distacco, possono reggere il confronto, per chi li aveva apprezzati (il sottoscritto tra essi) con il Lanois siderale, etereo e quasi jazz degli episodi più riusciti di Shine (2003) o Belladonna ('05), sanno costruire cornici ambientali di taglio cinematografico e narrativo, affidando al riverbero di una chitarra, alle note di vetro di un pianoforte o al lamento discreto degli ottoni la creazione di vere e proprie scenografie emotive nelle quali non è difficile specchiarsi.
Accade soprattutto durante la lunga intro della spettrale An Airport Bar On Christmas Day e con le spicciolate di malinconia di una Pleasantville Bar trafitta dalla tromba di Bryden Baird e dal trombone di Steve Donald, ma anche la marzialità jazzy di Drifting Too Far From The Shore (occhio al finale gospel), accompagnata dall'organo di Bob Packwood, o il folk luminoso e classicissimo di Virginia non sono da meno.
Con tutto il resto, purtroppo, si ritorna al "male" di cui sopra, e a una dimensione di ricercato intimismo che pian piano si trasforma in strozzatura espressiva: in primo luogo perché Bob Egan non dispone ahimè di una gran voce, certamente non di quella adatta ad aggiungere ulteriori sfumature a un suono fatto di sussurri e tratteggi appena accennati, e in seconda battuta perché si avverte una mancata corresponsione di risorse tra quello stesso suono (raffinatissimo) e la scrittura (non proprio un miracolo di originalità e spessore) che dovrebbe sostanziarlo.
Non è un brutto disco The Glorious Decline, anzi, sebbene manchi del guizzo decisivo che distingue un lavoro discreto da uno imperdibile sarebbe ingeneroso non riconoscergli una struttura musicale calibrata come poche e una notevole conoscenza della materia tradizionale. Sarebbe tuttavia altrettanto scorretto non sottolineare che, rispetto al modello costituito da Lanois, Bob Egan sembra dover ancora percorrere un bel tratto di strada: il ritmo di marcia pare quello giusto, il compito di valutarne la tenuta va però obbligatoriamente affidato all'eventuale prossimo album.