Per chi se lo chiedeva, bisogna dire che i cinque anni di carriera di
Jason Boland (tanti ne sono trascorsi dall'esordio
Pearl Snaps, targato 2001) non avevano aiutato a fare chiarezza sulla reale caratura del personaggio. Con quattro dischi (uno dal vivo) mai men che decorosi e al tempo stesso mai del tutto convincenti, era difficile stabilire se il ragazzo fosse pronto a un definitivo salto di qualità o se sarebbe rimasto confinato alla nicchia del cosiddetto "
Red Dirt movement", minuscola ma agguerrita scena di musicisti dell'Oklahoma dediti a una forma di hardcore-country avvezzo a flirtare col rock e la tradizione di Bakersfield. Per sciogliere l'enigma ci voleva un produttore di serie A come
Pete Anderson (
Dwight Yoakam,
Lucinda Williams, Buck Owens), colui che, sedendo in cabina di regia per questo
The Bourbon Legend, è riuscito a traghettare lo stile di
Jason Boland tra i ranghi della massima divisione del genere, dacché l'album vale in tutta tranquillità le cose migliori di Waylon Jennings (al cui ruspante honkytonk deve peraltro non poco).
Anderson non si è limitato a produrre il lavoro e a suonarci chitarra, basso, dobro, banjo e mandolino: sei brani su undici, oltre a quella di Boland, portano anche la sua firma, e suonano alla stregua di piccoli classici sin dal primo approccio. E "classico" è del resto l'aggettivo che più spesso affiora alle labbra durante l'ascolto di
The Bourbon Legend e delle sue polverose storie di amori, bevute, viaggi e solitudine, ora raccontate con la grinta elettrica di una rock'n'roll band, ora sussurrate con la dolcezza ebbra di una serenata.
Brani come
Last Country Song,
No One Left To Blame,
Can't Tell If I Drink o la stessa title-track, con il loro funzionale impasto di steel guitar (appannaggio dell'ottimo Roger Ray e dell'ospite Bob "Boo" Bernstein) e ritmiche pimpanti, non possono non riportare alla mente i dischi degli anni 70 di 0l' Waylon, quelli più outlaw e sudati, esempi probanti di un costume country in grado di rinvigorirsi attraverso riff micidiali, tamburi incalzanti e un feeling inequivocabilmente rock.
The Bourbon Legend, impiegando citazioni più o meno evidenti dei modelli di riferimento il citato Waylon, Johnny Paycheck, la Marshall Tucker Band, Merle Haggard del suono degli Stragglers e senza disdegnare qualche significativa deviazione dal percorso principale (ascoltate per esempio il robusto strattone rock'n'country di una
Time In Hell con tanto di convulso assolo d'organo.
La conclusiva
Everyday Life, congeda l'uditorio con un ricamo acustico d'impalpabile malinconia), paga il proprio tributo alle stagioni dorate del country e del country-rock evitando tuttavia di coniugare il proprio verbo esclusivamente al passato: la nostalgica
Jesus And Ruger, la strepitosa ballad
Up & Gone e una frugale
Baby That's Just Me imbevuta di folk-rock e aromi del border, per dire, tentano anzi di soffiare nuova freschezza nei confini della più consueta dimensione roots, ovviamente riuscendovi in pieno.
Jason Boland non sarà
Dwight Yoakam (anche perché, in tutta sincerità, ad onta di tanti emuli volenterosi e finanche preparati, di nuovi Yoakam all'orizzonte non se ne vede neanche uno), ma
The Bourbon Legend è senz'altro un album che piacerebbe allo stesso Dwight, e se amate il country più autentico e genuino piacerà moltissimo anche a voi.