Qualunque cosa possiate pensare di
Stoney LaRue e del "
Red Dirt Movement" dell'Oklahoma di cui il ragazzo fa parte (lo stesso di
Cross Canadian Ragweed,
Mike McClure,
Jason Boland, Red Dirt Rangers etc), un'avvertenza è d'obbligo: questo
Live At Billy Bob's Texas è un album dal vivo sui generis, un regaluccio estemporaneo pensato soprattutto per i fans e non, come si usava un tempo, il rendiconto dei progressi archiviati sul palco da un determinato artista o il "punto della situazione" circa una carriera lunga e stagionata.
Anche perché la carriera di Stoney LaRue lunga non lo è affatto, e quindi, prima di esecrare (giustamente) l'attuale abitudine del mercato discografico a scodellare dischi live a ogni piè sospinto, sappiate che
Live At Billy Bob's Texas si rivolge soprattutto agli appassionati ortodossi, ai maniaci del country, a chi conosce e apprezza la storia di un locale (appunto il Billy Bob's di Forth Worth, Tx., piccolo eppure leggendario honkytonk bar con tanto di ristorante, centro commerciale in miniatura, sale riunioni, pub e casinò) che degli album registrati nei propri spazi ha ormai fatto una piccola tradizione.
Preso quindi con le dovute precauzioni, questo secondo album di
Stoney LaRue (il terzo, se consideriamo anche
Downtown del 2002, intestato alla Organic Boogie Band) intrattiene e diverte, confermando, forse in certi casi persino amplificando, la percezione di un songwriter e di un performer superiore alla media, piantato sì anima e corpo nella tradizione roots ma tuttavia capace, alla bisogna, di sfumare il suo granitico country-rock facendo ricorso a svisate soul e a un'artiglieria pesante da vero e proprio rocker.
La band di sei elementi che calca le assi del Billy Bob's picchia con convinzione, e sebbene le tastiere di Steven Littleton fatichino ad emergere dal marasma rock dell'esibizione (colpa di un missaggio non impeccabile), rincalzare della sezione ritmica formata da Jeremy Bryant (batteria) e Jesse Fritz (basso), cui si aggiungono la sei corde febbricitante di Rodney Pyeatt, riesce a creare fondali di energia contagiosa: gli scossoni elettrici di
Down In Flames e
Solid Gone, il country indiavolato di
Walk Away, l'ottuso pestaggio rock di un'efficacissima
One Chord Song (scritta a quattro mani con
Bob Childers) e le rocciose vampate di
Texas Moon snocciolano senza flessioni qualitative tutti i trucchi di un mestiere che non lascerà di certo indifferente chi sia abituato a bazzicare rock e radici made in Texas.
Molto divertente è pure una rilettura in chiave honky-tonk del traditional
Goin' Down The Road Feelin' Bad, mentre i sofferti up&downs della bellissima
Let Me Hold You meritano un applauso a scena aperta per l'attitudine a mescolare tradizione roots, rasoiate rock e un cantato letteralmente inzuppato di soul alla maniera di un Van Morrison texano. Eppure, esauriti i complimenti d'ordinanza e apprezzata la dimensione "casereccia" di un album che sembra una riunione della famiglia Red Dirt (da lì provengono la chitarra dell'ospite Travis Linville e le altre due cover presenti, la lenta, magnetica
Feet Don't Touch The Ground di
Brandon Jenkins e la danzereccia
Oklahoma Breakdown degli Hosty Duo), è impossibile fare a meno di notare che il risultato finale della performance è inquinato da un sonoro assolutamente deficitario, e se questa è un caratteristica negativa di un po' tutti gli album dal vivo registrati al Billy Bob's mi sembra altresì un peccato che un'esibizione di simile carattere venga appesantita da un audio pesante e fangoso, dove le tastiere non si sentono quasi e la chitarra solista pare registrata a volume dieci volte più basso rispetto a basso e batteria.
Valutazione al ribasso, quindi, poiché di questi tempi non sarebbe davvero troppo complicato curare un po' meglio i dettagli tecnici di un cd, ma una volta arrivati al gran finale, celebrato con una fluviale versione tra gospel e rock della dylaniana
Forever Young, credo sarete comunque d'accordo col sottoscritto nel convenire che il talento di
Stoney LaRue è di quelli da seguire con occhio vigile.