La sera del 3 gennaio 1982, quando molte prove con la band sono alle spalle e molte altre arriveranno,
Bruce Springsteen è solo in casa con un tecnico di fiducia (Mike Batlan). Uno suona la chitarra e canta, l'altro mette mano a un piccolo registratore a quattro piste. Sono provini, dai quali potrebbe scaturire poi un album elettrico, full band, ma nessuna altra session li batterà.
Diventeranno
Nebraska, nei negozi dal settembre successivo. Si dice che una copia della cassetta sia finita nelle tasche di Van Zandt, Weinberg e compagni per prendere familiarità con le nuove cose, e si è sempre detto che di queste canzoni, messe così in fila, ne esista una dirompente versione rock con la E Street in gran forma. Da dire, di sicuro, resta che Springsteen ha inconsapevolmente scritto e messo su nastro una irripetibile sequenza - irripetibile l'atipicità dei suoni, irripetibile l'approccio così domestico - di storie noir che hanno come protagonisti il New Jersey suburbano e tante anime randagie in cerca di affetto, riscatto, lavoro, opportunità di vita.
Disco di immensa e disadorna bellezza nel più ascetico stile folk (chitarra e armonica), omaggio alle sue origini e occasione per disintossicare le corde vocali, le sue dure ballate di strada cantate quasi in sordina (
Highway Patrolman) profumano di Guthrie, di polvere e di sudore, di American Graffiti e di beat generation. Nostalgia e retorica si propagano di storia in storia, pathos, desolazione e denuncia (
Nebraska) si avvicendano con la sofferta grinta e l'entusiasmo che hanno segnato tutte le fatiche dell'eroe. Il tema unitario è la dura lotta per sopravvivere nell'era della Reagonomics.
Le ballate più avvincenti sono quelle (
Johnny 99,
State Trooper, il capolavoro,
Open All Night) scandite da un ritmo accentuato che rende ancor più allucinato e nevrotico il paesaggio morale di queste storie di falliti.
Nebraska è un disco cupo e spettrale, che presenta il punto di vista della classe lavoratrice, vittima impotente di un oltraggio morale.