Carta da parati damascata,
Bruce Springsteen che ti guarda come un Al Pacino, i capelli da risveglio brusco. Con la E Street Band già stabilizzata da un po' (da Born to Run in poi gli innesti decisivi di Weinberg, Bittan e Van Zandt) le canzoni di
Darkness On The Edge Of Town dal vivo montano uno show di quelli da sogno, che parte con gli omaggi al r'n'r di Jerry Lee Lewis e Buddy Holly e poi esplode con
Streets Of Fire e
Badlands, inno degli sconfitti da "
bugie che non ti lasciano altro che una ferita al cuore" e poi "
Il povero vuole essere ricco, e il ricco vuole essere re, e il re non è soddisfatto finchè non regna su cosa" nato per durare.
Farà quasi coppia fissa con
The Promised Land per decenni. La qualità è elevatissima, perché ci sono anche la canzone del titolo, poi
Factory (papà Douglas che infila l'alba, poi i cancelli di una fabbrica),
Racing In The Street il grido strozzato e lancinante di "Adam Raised a Cain", "Something in The Night" e "Streets of Fire" fanno il resto. E siccome nulla si butta, con l'intro live di
Prove It All Night. Patti Smith (che con Bruce scrive, ma fuori da questo disco,
Because The Night) ci fa Frederick, una canzone intera.
Benchè inferiore ai due precedenti (alcuni brani sembrano scarti, altri sono insolitamente sottotono), è questo il disco che segna il passaggio alla fase maggiore di Springsteen: le liriche penetrano nella vita quotidiana della gente comune e la trasformano in poesia universale, santificano la cupa realtà sociale in atmosfere di un'intensità quasi religiosa. Springsteen, che fin qui era stato soltanto l'ennesimo bardo romantico della strada, dei grandi sogni e delle grandi speranze, diventa la coscienza dell'America di provincia.
È questo anche il disco in cui Springsteen comincia a confrontarsi con il passato, che gli ispirerà alcuni dei melodrammi più intensi: facendo leva sul potere della nostalgia e del rimpianto, aggiunge altri strati di pathos al suo affresco sociale.