Se ai tempi di
New American Language (2001)
Dan Bern perorava la necessità di trovare un nuovo linguaggio, magari basato sugli idiomi della compassione e della speranza, stavolta suggerisce soltanto di fermarsi e tirare un bel respiro. Anche lui, che quanto a invettive politiche non s'è mai fatto mancare nulla, è ormai arrivato a proporre un cosciente ripiegamento intimista e un testardo ancoramento ai valori di amicizia e solidarietà per fronteggiare la cacofonia sempre più assordante dell'attualità e la degenerazione belligerante dei rapporti tra cittadini del mondo.
Breathe, dunque, si comporta di conseguenza, concedendo assai poco alle lusinghe del rock'n'roll e altresì concentrandosi su dieci ballate di strepitosa classicità, una galleria di mid-tempos sospesi tra il soffio triste di un'armonica e la concreta eleganza delle percussioni di Gary Mallaber, tra le sfumature ondeggianti di un organo che cita a più non posso il classic-rock degli anni 70 e la produzione senza sbavature del ritrovato Chuck Plotkin.
Il paragone con Bob Dylan, che sin dagli esordi (quello spartano dell'ep
Dog Boy Van ['96] e quello indimenticabile dell'omonimo di dodici mesi dopo) viene evocato a ogni nuovo lavoro di questo sferzante rampollo dell'Iowa, in questa occasione calza ancor più del solito, e non soltanto perché Dylan e Bern sono entrambi "
divertenti, intelligenti e in possesso di un naso regalmente semitico" (è una definizione del secondo), ma perché i toni bluastri di
Suicide Room, così come il talkin' malinconico dell'iniziale
Trudy, potrebbero accomodarsi senza problemi tra le canzoni per dire di un
Planet Waves. Sicché, laddove il citato debutto era stato il suo
Freewheelin' e
Smartie Mine ('98) il suo Blonde On Blonde,
Breathe potrebbe davvero essere il Planet Waves di Dan Bern: li unisce la capacità di esporre il conflitto senza alzare esageratamente i toni, un mood complessivamente rilassato e confidenziale, l'impegno nell'esplorare i confini della canzone senza mai abbatterli, la carica soul di certi episodi (qui riscontrabile nei cori della title-track) e la dolcezza folkie di certi altri (
Remember Me è forse la prima love song totalmente priva di intenti ironici nella carriera di Bern).
Oppure, ed è un'ipotesi altrettanto plausibile, dopo un diluvio di pubblicazioni collaterali, con ben cinque ep di varia estrazione tra il 2002 e il 2006 (dei quali uno,
Breathe Easy, recente assaggio dell'album in esame),
Dan Bern può aver avvertito la necessità di concentrarsi su di progetto maggiormente unitario, dacché
Breathe risulta essere ad oggi il suo disco senz'altro più omogeneo. Sia come sia, i risultati sono sempre e comunque apprezzabili, sia nel fraseggio di tastiera beatlesiano su cui poggia la stupenda
Tonguetied che nel ritmo ciondolante dell'ipnotica
Visit In My Dreams.
Le eccezioni alla regola, che pure ci sono, non tolgono sostanza al discorso:
Past Belief, otto minuti di sottile, acuminata tensione elettrica, si rivolge a Gesù Cristo perché mandi un segnale della sua esistenza, sfruttando un artificio retorico la diretta interrogazione del divino - cui Bern ricorre spesso e mettendo a segno le migliori liriche dell'intero album, mentre la spettacolare
Rain trascina l'ascoltatore in un piccolo vortice pop-rock degno di Nick Lowe, ma sono due parentesi isolate prima che la litania dylaniana di
Another Man's Clothes riporti tutto a casa su una nota di amarezza e disillusione.
Fosse il personaggio di un film, il Dan Bern di Breathe sarebbe la Kathleen Turner della coppoliana Peggy Sue: forse non cruciale, nella carriera del suo creatore, eppure in grado di accartocciare il cuore con un battito di ciglia, un commento trattenuto, un sorriso più lungo e malinconico del solito.