C'è stata una stagione in cui
Richard Buckner avrebbe potuto seriamente incarnare una delle voci della sua generazione: così è avvenuto almeno in parte, anche se rispetto alle aspettative il lavoro del songwriter di San Francisco si è svolto in ritirata, in fondo del tutto consono alla sua figura un po' scontrosa e chiusa, ermetica come possono apparire le sue stesse liriche.
Dai tempi di
Devontion+Doubt e
Since, assoluti capolavori di modero cantautorato, che lanciavano un ideale ponte fra il mondo dell'indie rock americano e la tradizione dei troubadour texani, sono passate ormai molte stagioni e mentre qualche collega ha saputo capitalizzare quelle intuizioni (vengono subito alla mente gli amici Joey Burns e John Convertino dei Calexico), Buckner si è tenuto stretto le sue canzoni crepuscolari e la sua voce profonda, una delle più singolari e affascinanti emerse in questi tempi. Lo ritroviamo così all'ottavo giro di boa, sempre accasato negli States presso la Merge records, ma nella sostanza isolato nel suo discorso artistico.
Meadow propugna un sound leggermente più elettrico e "spinto" del solito, eppure non scombina i piani di una scrittura che avrebbe forse bisogno di qualche scossone per ridarsi fiducia.
Il fatto che il disco sia stato registrato a Brooklin, dove Buckner si è ormai trasferito, con il vecchio produttore JD Foster, per intenderci la persona che pose la firma sui citati highlights del nostro protagonista, lasciava forse sperare in un nostalgico inseguimento della magia di quei dischi. Nient'affatto, perché amando circondarsi di musicisti sempre diversi, Buckner ancora una volta ha piegato le potenzialità di questi ultimi, tra cui le chitarre di Doug Gillard (Guided By Voices), per conseguire uno stile riconoscibilissimo.
Un pregio non indifferente quello di mantenere la propria personalità nonostante l'ambiente esterno, ma anche il sintomo di una incapacità di lasciarsi condurre dalla corrente: così il trittico iniziale formato da
Town,
Canyon e
Lucky apparirà nient'altro che la prosecuzione di un discorso ampiamente trattato in
Impasse e
Dents and Shell, sebbene le cadenze siano più elettriche e pulsanti. Dietro l'angolo compare però la dolcezza fragile di
Mile, che spiega tutto il fascino di Buckner nelle vesti di menestrello folk rock, e la rotta cambia decisamente: questo è il cuore del songwriter, enigmatico come sempre nei suoi frastagliati pezzi di poesia in musica.
È uno dei lampi più commoventi di
Meadow, in buona compagnia con la pianistica
Before e il finale in fingerpicking di
The Tether and the Tie, altrove invece ostinatamente tortuoso e scuro (
Window), oppure adagiato su ballate (
Spell) che tendono a ripetere la stessa formula. Ne un passo avanti ne uno indetro,
Meadow rimane a metà del guado.