CARY HUDSON (The Phoenix)
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  Recensione del  26/02/2004
    

Dalle ceneri dei Blue Mountain, una delle band più celebrate del movimento alternative country, dopo 8 anni on the road e cinque albums, Cary Hudson diventa solista ed incide un disco potente e chitarristico che conferma la sua statura di musicista. Rispetto al passato amplia il suo discorso musicale abbracciando oltre rock e radici, anche blues e southern rock e lo fa nel modo più semplice, con un power trio: chitarra, basso e batteria. In questo album Hudson rivela lati sconosciuti, come l'amore per il southern rock, per i brani basicalmente acustici e per le radici blues.
Un disco completo che, rispetto alla edizione Usa, contiene tre canzoni in più, le ultime. Oltre alla sua voce ed alla sua chitarra, Cary è attorniato dal suono scarno e pulsante di Ted Gainey, batteria, e Justin Showah, basso. Aggiunti in studio ci sono alcuni membri dei Kudzu Kings: Robert Chafee e Tommy Brian Ledford, ed un paio di amici di Monticello, David Gilmore e Dave Garrett. Il disco, brillante e deciso, ha una marcia in più e libera la musicalità a tutto tondo di Hudson, uno dei personaggi più sinceri del movimento Americana.
Il suo cocktail di blues e mountain music, le sue ballate piene di fascino, il suo rock spigoloso sono il fulcro di un disco che, nei suoi cinquanta minuti, non sciupa una nota e si fa ascoltare tutto d'un fiato dall'inizio alla fine. High Heel Sneakers, introdotto da una slide potente, è un brano di vibrante southern rock che ha dalla sua una melodia semplice, diretta, quasi fosse tratta da un vecchio disco dei Creedence. Hudson canta con forza e la band lo segue mischiando cuore e sudore. Il riff di chitarra è degno dei classici della storia del rock.
By Your Side è una ballata intensa che ha forti connotazioni tradizionali e sembra uscita da un songbook anni cinquanta di uno dei grandi del country. Notevole anche la rarefatta The Phoenix, una country ballad dall'andamento ondeggiante, quasi fosse un valzer texano: Hudson mostra di avere ascoltato a fondo Lucinda Williams e Mary Gauthier, le due maggiori artefici della rinascita del country al femminile. Una bella armonica si distende dietro alla voce espressiva di Cary e crea la giusta atmosfera. Bend in the Wind è elettrica e vitale, con forti reminiscenze southern: ha dalla sua una forza dirompente e finisce con una jam di chitarre niente male.
Lovin' Touch rappresenta la parte più soffice del disco, una composizione lenta, con una chitarra che fa contraltare alla voce, distesa su un tappeto elettroacustico. Anche Buttrefly appartiene al filone ballata: mi piace meno della precedente ma non scende sotto il livello di guardia. È solo una canzone normale. Dopo due brani lenti Cary torna all'elettrico con la robusta, ancora influenzata dal southern rock, Mad, Bad and Dangerous: una sferzata di energia. God Don't Never Change è l'unica cover del disco: si tratta mfatti della rilettura di un blues di Blind Willie Johnson.
Hudson scatena la sua slide e riveste il vecchio blues di una corteccia ispida ed elettrica e gli da forza e sentimento. August Afternoon è un country blues elettroacustico sulla linea delle composizioni di Mississippi John Hurt: semplice nella sua struttura, fluido nella melodia, chiude il cerchio sulla visuale musicale del nostro. Pura Americana, a trecento sessanta gradi. Non c'è un suono fuori posto, la voce è giusta, le chitarre sempre in primo piano e,solo in qualche brano, c'è una pedal steel, un organo, un piano o una chitarra acustica. Le ultime tre canzoni sono appannaggio dell'edizione euroea. Ball & Blues, come dice il titolo, è un blues.
Rilassato, ha una sua discorsività, anche se non brilla per originalità. Free State of Jones è una composizione elettrica di spessore che mischia rock e radici in modo decisamente fruibile: sembra quasi un vecchio brano folk riveduto e corretto, ma dal tessuto elettrico. Chiude Haunted House Blues, uno slide blues lento ed espressivo che conferma Hudson interprete vero delle tradizioni americane. Con o senza Blue Mountain.