Slancio. Voglia di dire e di poter fare qualcosa. E di farlo attraverso un buon rock energico. È questo ciò che viene in mente fin dalle prime note della title track dell’ultima fatica di
Joe D’Urso, “
Cause”, subito dopo il primo di tanti estratti da interviste a
Harry Chapin. Chapin era un giovane con l’ambizione di diventare produttore di documentari quando la guerra in Vietnam infuriava, divenne poi cantautore in quegli anni ’70 divisi tra idealismo ed edonismo, un cantautore con una Causa - sconfiggere la fame nel mondo.
E, pur non essendo famosissimo, fece tutto quello che poté fino alla sua morte prematura nel 1981, donando gran parte dei proventi dei suoi concerti per fini umanitari e fondando un’associazione per sradicare le cause di quella piaga, World Hunger Year (la cui azione è ora sostenuta anche da D’Urso stesso), aprendo forse la strada anche a progetti di più ampio respiro come Band Aid o We Are the World. E, pur non avendolo mai potuto conoscere personalmente, Joe D’Urso sente un filo particolare con Harry. Gli dedica le note di copertina, introduce virtualmente le proprie liriche originali utilizzando adeguati spezzoni di interviste (concessi dalla vedova Chapin), infine chiude l’album con “
Taxi”, canzone che rese famoso Chapin nonché una delle prime mai cantate dal vivo da Joe, qui resa come sottofondo a bassa fedeltà per un panegirico sulle buone azioni del cantante. I temi che
Joe D’Urso affronta sono i più svariati, ma lo fa sempre con sempre con l’anima in mano. Si parte da “
Cause” – “
ognuno ha un Causa, penso che il mondo sia una buona causa”.
Si continua con canzoni che parlano delle brutture che ci circondano, dalle sciocchezze in TV alla guerra senza perché, ma anche d’amore e di amicizia, con le loro mille sfaccettature agrodolci. Nell’insieme delle liriche ben si sposa la sarcastica cover “
Gold” di Joe Stewart – “
ci sono persone là fuori che trasformano la musica in oro”. Anonima la traccia 26 – in verità una scarna ma piacevole reinterpretazione di “
I Shall Be Realeased”. Il rock di Joe D’Urso è spoglio ma non banale, con inevitabili richiami a Springsteen, e sul disco il sound della sua
Stone Caravan (Lou De Martino, Greg Lykins, Sam LaMonica e Neil Berg) è reso volutamente il più vicino possibile a come sarebbe dal vivo. Benché le parole delle canzoni costituiscano almeno il 50% dell’interesse che questo disco suscita, non è vitale ascoltarle tutte per trovare il piacere di battere il piede o fare su e giù con la testa.
Se esiste davvero quel posto a cui Joe D’Urso scherzosamente anela, dove San Pietro ha accolto Chapin, e se avremo la fortuna di andarci perché avremo perseguito la nostra piccola o grande Causa, be’…. Certo non ci sarà di che annoiarsi.